ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 31 luglio 2017

Botero, una carriera lunga cinquant’anni

È la grande scultura in bronzo «Cavallo con briglie», di oltre una tonnellata e mezzo di peso e alta più di tre metri, ad aprire il percorso espositivo della retrospettiva che Roma dedica, fino al prossimo 27 agosto, a Fernando Botero (Medellín - Colombia, 19 aprile 1932), in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno. Come una sorta di cavallo di Troia l’opera è posta all’ingresso del Complesso del Vittoriano con l’intento di incuriosire i turisti e i romani, così da invitarli a entrare in un mondo dai colori brillanti e dalle forme opulente, ammantato di una dimensione fiabesca e senza tempo, che fonde le suggestioni dell’arte latino-americana con quelle dei grandi maestri del passato, soprattutto dell’epoca rinascimentale.
Sono cinquanta le opere che il curatore Rudy Chiappini ha selezionato per questa mostra, già attesa per il prossimo autunno a Verona, dove sarà allestita, a partire dal 21 ottobre e fino al 29 aprile 2018, negli spazi di Palazzo Forti. Si tratta di dipinti e sculture, realizzati tra il 1958 e il 2016, che raccontano di una straordinaria carriera non ascrivibile a nessuna corrente pittorica, seppur spesso accostata al Surrealismo, il cui linguaggio -giocato su un’esasperata dilatazione delle forme, nonché su un colore smagliante steso in grandi campiture piatte e uniformi, senza contorni e ombreggiature- è facilmente riconoscibile, e anche molto amato, dal grande pubblico.
Nudi immersi in una sorta di Eden primordiale che non contempla la malizia, nature morte dai canoni classici, ritratti austeri di vescovi e matador, scampoli di vita circense, scene di quotidianità delle popolazioni andine, della amata Antioquia, con uomini e donne che sembrano privati dei propri sentimenti: questo e molto altro anima l’arte di Fernando Botero e scorre lungo le pareti dell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano.
Giotto, Piero della Francesca, Leonardo, Mantegna, Velázquez e Goya sono punti di riferimento imprescindibili per l’artista sudamericano. Gli offrono un’inesauribile fonte di ispirazione, che spesso lo ha portato a dare vita a una propria personale re-interpretazione dell’opera di questi maestri, scoperti durante un suo viaggio in Italia e in Spagna nei primi anni Cinquanta. Sono nati così lavori come «La Fornarina» (2008), rilettura del sinuoso e sensuale capolavoro di Raffaello, o il celebre «Dittico di Piero della Francesca» (1998), «L’infanta Margherita Teresa» (2006), ironico omaggio a Velasquez, o ancora il ritratto di «Rubens e sua moglie» (2005) che mantiene inalterata l’atmosfera intimista, corroborata dalla sinuosa impronta boteriana.
Anche le nature morte dell’artista guardano alla lezione del passato. Lo si può notare in «Natura morta con frutta e bottiglia» (2000), il cui particolare clima di complicità discende dalle equivalenti composizioni concepite nel Seicento dallo spagnolo Francisco de Zurbarán per arrivare quindi a Paul Cézanne, capace di infondere una spiccata personalità, se così si può dire, anche a una mela che conquista la scena.
Non meno forte è l’attaccamento di Fernando Botero alla sua terra natale. Nel linguaggio espressivo dell’artista colombiano si respira, infatti, una radicata dimensione popolare, un profondo attaccamento alla propria cultura, alla memoria mai venuta meno della quotidianità di Medellín. Egli stesso lo racconta con queste parole: «si ritrova nella mia pittura un mondo che ho conosciuto quando ero molto giovane, nella mia terra. Si tratta di una specie di nostalgia e io ne ho fatto l’aspetto centrale del mio lavoro. […] Io ho vissuto quindici anni a New York e molti anni in Europa, ma questo non ha cambiato nulla nella mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito latino-americano. La comunione con il mio Paese è totale».
Sono figlie di questo attaccamento alle proprie origini opere come «Le sorelle» (1969-2005), «Il club del giardinaggio» (1997), «Atelier di sartoria» (2000) e «Picnic» (2001) con i suoi placidi innamorati. Queste caratteristiche si ravvisano anche nelle tante opere dedicate al circo, «un soggetto bellissimo e senza tempo» -per usare le parole dell’artista-, del quale ci viene consegnata una carrellata di ritratti di grande bellezza, da Pierrot ad Arlecchino, dalla cavallerizza impegnata nel suo numero ai clown sui loro improbabili trampoli, dall’elefante ai cavalli.

Didascalie delle immagini
[Figg. 1, 2, 3] Allestimento della mostra che Roma dedica, negli spazi del Complesso del Vittoriano, a Fernando Botero. Foto di Iskra Coronelli

Informazioni utili
Fernando Botero. Complesso del Vittoriano - Roma. Orari: dal lunedì al giovedì, ore 9.30-19.30; venerdì e sabato, ore 9.30-22.00; domenica, ore 9.30 - 20.30; la biglietteria chiude un'ora prima. Ingresso: intero € 12,00 (audioguida inclusa), ridotto € 10,00 (audioguida inclusa) o € 8,00, ridotto scuole €  5,00. Informazioni: tel. 06.8715111. Sito internet: www.ilvittoriano.com. Fino al 27 agosto 2017. 


venerdì 28 luglio 2017

«Tutti gli ismi di Armando Testa», al Mart di Rovereto la pubblicità con la P maiuscola

Cento anni fa nasceva a Torino uno delle menti creative più feconde della pubblicità italiana: Armando Testa. Per ricordare la travolgente fantasia di questo importante protagonista della nostra cultura visiva, che ha regalato alla storia del Carosello Rai personaggi iconici come Carmencita e Caballero della Lavazza o l’ippopotamo Pippo della Lines, il Mart di Rovereto ospita per l’intera estate, negli ampi e luminosi spazi del secondo piano, la mostra «Tutti gli «ismi» di Armando Testa», a cura di Gianfranco Maraniello e Gemma De Angelis Testa.
L’esposizione, della quale rimarrà documentazione in un catalogo di Electa editore, si sviluppa in un unico grande ambiente scandito da alcune salette che fungono da contrappunto narrativo. Attraverso la presentazione di circa centocinquanta opere tra sculture, manifesti, pubblicità, spot televisivi, bozzetti, quadri, installazioni, estratti di celebri interviste e filmati di repertorio, il percorso è segnato dalla stessa voce del pubblicitario torinese, che con la sua grafica inconfondibile ha accompagnato gli italiani negli anni del boom economico e della rivoluzione della televisione come medium di massa.
Ad aprire il percorso espositivo è una videointervista nella quale il pubblicitario dichiara che, dopo aver perso un cliente a causa di una proposta troppo azzardata, nella sua agenzia si disse: «Il Testa qualche volta ha delle cose azzeccate negli «ismi», chiamiamoli «ismi» tutti i modernismi. Qualche volta però sarà bene guardare di più il marketing!». Questi «ismi» sono il perno attorno a cui ruota l’intero progetto del Mart.
Futurismo, Astrattismo, Surrealismo sono, infatti, fonti alle quali Armando Testa attinge per il suo lavoro. Lampanti appaio, per esempio, i riferimenti al Bauhaus e non meno chiari sono gli omaggi a Mondrian e Malevič come provano l’uso dei colori primari e delle forme geometriche. Anche il cinema e la fotografia sono linguaggi a cui il creativo guarda per carpire tecniche e strutture, dando così vita a opere in cui le grammatiche culturali si ibridano e incontrano i riferimenti più comuni, rendendo la quotidianità un territorio fantastico ricco di significazione.
«Armando Testa -raccontano al Mart- intuisce che il mondo sta cambiando e che i linguaggi della modernità diventano patrimonio comune, identità condivisa. Precursore assoluto, inaugura un nuovo modo di fare pubblicità, sintesi perfetta tra rappresentazione e simbolo. Tra metafore, miraggi, sogni, favole, metamorfosi, le sue creazioni concedono un’evasione dall’ovvietà del reale, rispondendo ai bisogni primari dello spettatore: divertimento, emozione, coinvolgimento».
A Rovereto trovano posto in mostra alcuni dei protagonisti più celebri dei mondi di Testa, icone inconfondibili a cui generazioni di italiani guardano con sorrisi nostalgici e che risultano una divertente scoperta per i più giovani. Dall’«Uomo moderno», ideato per egli allegri manifesti della Facis, a Carmencita e Caballero, protagonisti della pubblicità per il caffè Paulista di Lavazza, il visitatore incontra Punt e Mes per il vermut Carpano, gli sferici extra terrestri del pianeta Papalla per Philco, l’ippopotamo Pippo, gli elefanti Pirelli, i rinoceronti Esso e molto altro ancora.
La mostra propone anche presente un nucleo di opere inedite che illustra la produzione propriamente artistica di Armando Testa, portata avanti parallelamente al suo lavoro in agenzia.
L’esposizione roveretana si sofferma, nello specifico, sulle passioni iconografiche ripetute e reinterpretate durante quella che fu una lunga carriera. «L’allestimento, che include manifesti del primo periodo fortemente pittorici, quadri, fotografie, serigrafie e sculture, approfondisce – raccontano ancora dal museo roveretano- i topoi ricorrenti, come quello degli animali o quello delle dita, presentato al Mart per la prima volta in maniera unitaria.
Ricco si rivela anche il gruppo di materiali ispirati al cibo, tema a cui l’artista si dedicò fin dalla fine degli anni Sessanta, precorrendo ancora una volta i tempi».
Procedendo per suggestioni tematiche, la rassegna illustra la ricerca del pubblicitario italiano, restituendo il volto di un artista a tutto tondo la cui attività supera l’ambito della comunicazione ed entra in contatto diretto con le energie e le sperimentazioni che hanno segnato gli ultimi settant’anni.
Giochi di parole, slittamenti semantici e la chiave dell’umorismo come strumento per aprire le porte della fantasia sono tra le caratteristiche fondamentali delle numerose visioni rappresentate. Armando Testa raggiunge così tutti i pubblici, piacendo tanto ai frequentatori delle gallerie, dei musei e dei cinematografi, quanto ai consumatori meno avvezzi ai linguaggi colti. Attraverso una formidabile capacità visionaria e raffinata efficacia semiotica, l’artista rielabora stilemi e canoni della storia dell’arte e li traduce in materiale per la comunicazione di massa. Inventa mondi fantastici capaci di parlare anche ai giovani d’oggi e che fanno di lui, per usare le parole di Gillo Dorfles, un sempre attuale «(...) visualizzatore globale dei rapporti fra uomo e mondo, fra produzione e consumo, fra creatività pura e creatività finalizzata a uno scopo».

Didascalie delle immagini
[Figg. 1,2, 3 e 4] Veduta dell'allestimento della mostra «Tutti gli «ismi» di Armando Testa» al Mart di Rovereto. Fotografie di Jacopo Salvi

Informazioni utili
«Tutti gli «ismi» di Armando Testa». Mart, Corso Bettini, 43 - Rovereto. Orari: martedì-domenica, ore 10.00–18.00; venerdì, ore 10.00-21.00; lunedì chiuso. Ingresso:
intero € 11,00, ridotto gruppi, giovani dai 15 ai 26 anni e over 65 anni € 7,00,  biglietto famiglia € 22,00, gratuito fino ai 14 anni e Amici del museo. Informazioni: Numero verde 800.397760  o
info@mart.trento.it. Sito internet: www.mart.trento.it. Fino al 15 ottobre 2017

giovedì 27 luglio 2017

«Spartaco», la schiavitù nel mondo antico e oggi

La storia di Roma è la storia di una società, di una cultura e di un'economia essenzialmente schiaviste. Il nostro sguardo ammirato rivolto all'antico non deve nasconderci questa verità: l'impero romano e la sua organizzazione così avanzata, che in alcuni casi ha fatto parlare di proto-capitalismo, non avrebbe potuto reggersi senza lo sfruttamento, abilmente organizzato, delle capacità e della forza lavoro di milioni di individui senza libertà, senza diritti e senza proprietà, neppure quella del proprio corpo. Senza gli schiavi, motore silenzioso e quasi invisibile dell’impero, difficilmente si sarebbe sviluppato il latifondo a cultura intensiva. Il commercio non avrebbe potuto distribuire merci su scala globale solcando numerose rotte, così come l’industria tessile, le fabbriche dei laterizi, la produzione industriale della ceramica e le imprese estrattive di cava e di miniera non avrebbero potuto far fronte ai consumi delle grandi concentrazioni urbane sorte intorno al Mediterraneo. Persino il divertimento e il tempo libero –ovvero tutto quel sistema che comprendeva teatro, circo e terme– non avrebbe potuto sopravvivere senza una larga percentuale di lavoro servile. Basti pensare che stime recenti hanno calcolato la presenza tra i 6 e i 10 milioni di schiavi su una popolazione di 50-60 milioni di individui.
A questa storia rivolge la propria attenzione la mostra «Spartaco. Schiavi e padroni a Roma», ospitata fino al 17 settembre al Museo dell’Ara Pacis di Roma, che vede il coinvolgimento nella parte curatoriale di un team di archeologi, scenografi, registi e architetti, coordinato dal punto di visto scientifico da Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo.
Oltre duecentocinquanta reperti archeologici provenienti da importanti istituzioni italiane e straniere come il Louvre di Parigi, i Musei Vaticani, la Galleria Tretyakov di Mosca, il Maschio Angioino di Napoli e le Terme di Diocleziano (solo per fare qualche nome) ricostruiscono la complessità del mondo degli schiavi nell’antica Roma a partire dall’ultima grande rivolta guidata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C., una protesta che coinvolse oltre settantamila gladiatori della Scuola di Capua e che venne repressa nel sangue da una decina di legioni al comando di Crasso.
Le opere sono inserite in un racconto immersivo composto da installazioni audio e video che riportano in vita suoni, voci e ambientazioni del contesto storico, la cui regia visiva e sonora è stata curata da Roberto Andò.
Il percorso espositivo è, inoltre, arricchito da una selezione di dieci fotografie, selezionate da Alessandro Mauro di Contrasto e firmate da Lewis Hine, Philip Jones Griffith, Patrick Zachmann, Gordon Parks, Fulvio Roiter, Francesco Cocco, Peter Magubane, Mark Peterson e Selvaprakash Lakshmanan, che rappresentano forti denunce visive di forme di schiavismo dell’epoca post-industriale e contemporanea.
L’attenzione all’attualità in mostra è data anche dai contributi forniti dall’Ilo - Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia specializzata delle Nazioni Unite nei temi della politica sociale, impegnata nell’eliminazione del lavoro servile e di altre forme di schiavitù legate al mondo del lavoro.
Il percorso si snoda attraverso undici sezioni, a partire da «Vincitori e vinti», in cui si racconta l’età delle conquiste e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di vinti in ogni campagna militare: 300.000 prigionieri a seguito delle guerre puniche, 30.000 dalla sola città di Taranto nel 209 a.C., 150.000 durante le razzie dell’Epiro, 40.000 arrivati dalla Sardegna nel 174 a.C., altri 50.000 da Corinto nel 146 a.C.., circa 150.000 presi tra i Cimbri e i Teutoni ai tempi di Caio Mario e, secondo alcune fonti, più di un milione, catturati dall’esercito di Giulio Cesare in Gallia.
A mantenere alto il numero degli schiavi nell’antica Roma era, fin dai tempi remoti, la loro riproduzione naturale, ovviamente favorita dai padroni, ma anche la povertà, che costringeva molti a vendere i propri figli e a farne così dei servi, o le pendenze con la legge.
Di sezione in sezione, il visitatore può scoprire, per esempio, che gli schiavi domestici -cuochi (praepositus cocorum), camerieri (ministratores), assaggiatori (praegustatores), barbieri (tonsores), pettinatrici (ornatrices), addetti al guardaroba (ad vestem) o ai gioielli (ab ornamentis) e portatori di lettighe (lecticarii)- avevano dei privilegi rispetto agli addetti ai lavori pesanti, concentrati principalmente nei campi e nelle miniere, e in alcuni casi creavano addirittura rapporti di affetto e intimità con i loro padroni.
Difficile era anche la situazione delle donne. «Prehende servam: cumvoles, uti licet», ovvero «Prenditi la schiava come vuoi, come è tuo diritto», è quanto si legge, per esempio, in un graffito pompeiano. I padroni utilizzavano, dunque, le loro serve come un bene su cui investire, mettendole incinte o favorendo il loro accoppiamento, vendendole a casa di piacere o destinandole ad ambienti particolari della propria casa, le cosiddette cellae meretricae. Non possiamo, però, escludere del tutto che talvolta le schiave-amanti acquisissero ruoli di rilievo nella vita familiare, come nel caso della schiava di Moregine, che poteva sfoggiare un dono prezioso come il bracciale d'oro serpentiforme, che riporta l’iscrizione «Dominus ancillae suae». A raccontare questo aspetto della vita servile ci sono anche le spintriae, dischi di bronzo, della dimensione di una moneta, che dovevano anche possedere un qualche valore, forse corrispondente al numero ordinale su di esse riportato.
Schiavi erano anche i professionisti dello spettacolo, a cominciare dagli aurighi e dai gladiatori, vere e proprie star del firmamento romano.
Chi calcava il palcoscenico -attori comici, tragici, mimi, cantanti e danzatori- aveva uguale la sua dose di gloria, pur facendo un lavoro considerato non rispettabile. L’affermazione del mimo, basato sulla capacità espressiva e acrobatica del singolo performer, consacrò, per esempio, nuovi idoli: ad esempio lo schiavo Publilio Siro, un contemporaneo di Giulio Cesare di grande arguzia e avvenenza, o la famosa mima Licoride, nata schiava quindi liberata, amante di grandi personalità politiche, come Marco Antonio, e amata da uno dei poeti più famosi del I secolo a.C., Cornelio Gallo.
Accanto a questi lavori che venivano bollati con il marchio di infamia ve ne erano, però, altri -oggi stimati, come quello del medico e del chirurgo- esercitati da schiavi, molto spesso greci, di particolare cultura e abilità.
La mostra documenta anche la manumissio, ovvero «la strada verso la libertà», vera e propria occasione offerta dal diritto romano agli schiavi più meritevoli e a quelli che erano riusciti, arricchendosi, a comprare la propria libertà. Si trattava, comunque, di una pratica diffusa e unica nella storia della schiavitù tanto che gli schiavi liberati, i liberti, potevano divenire a pieno titolo cittadini romani, con tutti i diritti connessi e poche limitazioni, che peraltro scomparivano per la generazione successiva. Con questa logica, paradossale, il sistema schiavistico romano metteva in moto un vero e proprio ascensore sociale su base, almeno teoricamente, meritocratica.
Interessante è anche la sezione dedicata alla schiavitù in epoca moderna, che presenta, tra l’altro, un’immagine di Fulvio Roiter, datata 1953, che ritrae dei lavoratori nella miniera di zolfo di Caltanisetta e uno scatto di Lewis H. Hine con due bambini intenti a riparare i fili spezzati di un telaio in una fabbrica tessile di Macon, in Georgia, nel 1909. Un invito a non dimenticare e a continuare e a impegnarci nella lotta contro le nuove schiavitù.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Frammento di mosaico figurato, Paris, Musée du Louvre Département des Antiquitès greques, étrusques et romaines Photo© RMN-Gran Palais (musée du Louvre)/Hervé Lewandowski; [fig. 2] Bracciale in oro con iscrizione incisa, Moregine. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo - Soprintendenza Speciale Pompei; [fig. 3] Ritratto di auriga, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo alle Terme; [fig. 4] Lanternarius addormentato, Su concessione del ministero per i Beni e le Attività culturali – Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Roma. Museo Nazionale Romano – Museo delle Terme di Diocleziano; [fig. 5] Gerla per lavoro in miniera. Madrid, Museo Arqueòlogico Nacional

Informazioni utili
«Spartaco. Schiavi e padroni a Roma». Museo dell’Ara Pacis, lungotevere in Augusta – Roma. Orari: tutti i giorni, dalle ore 9.30 alle ore 19.30; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero € 11,00, ridotto € 9,00; speciale scuola ad alunno € 4,00 (ingresso gratuito a un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale Famiglie € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni). Informazioni: 060608 (tutti i giorni, dalle ore 9.00 alle ore 19.00). Sito internet: www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it. Fino al 17 settembre 2017.

martedì 25 luglio 2017

«L’offensiva su carta», la Grande guerra raccontata dal Fondo Luxardo

Con i suoi cinquemilasettecento pezzi tra giornali, periodici, bollettini, manifesti, volantini e pubblicazioni relativi alla Grande Guerra, il Fondo Luxardo, conservato nei Civici musei udinesi, è tra i più importati al mondo per ripercorrere la storia della prima guerra mondiale attraverso il linguaggio dell’arte e della comunicazione. Si rivela, dunque, preziosa la mostra «L’offensiva su carta», allestita negli spazi dell’istituzione friulana per la curatela di Giovanna Durì, Luca Giuliani e Anna Villari, che si sono avvalsi dell’aiuto di Sara Codutti e Fernando Orlandi. La rassegna, visibile fino al 7 gennaio, non si limita a presentare i soli materiali della Luxardo, utili anche per ricostruire il costume e la storia dell’arte di quel periodo storico, ma si estende al cinema d’epoca per arrivare ad illustratori contemporanei quali Hugo Pratt e Gipi.
Anna Villari, che di questa ricognizione storico artistica sui tesori della Luxardo è la responsabile, evidenzia come «l’illustrazione e la grafica italiane degli anni della Prima guerra mondiale, sulla scia di studi passati e anche delle diverse occasioni espositive legate alla ricorrenza del centenario, continuino a rivelarsi un settore particolarmente ‘generoso’ e ancora in parte inesplorato, sia nella quantità e varietà dei materiali che nella analisi e riflessione critica».
Quando l’Italia entra in guerra, dal punto di vista artistico si stanno ancora assaporando le delizie e i compiacimenti del gusto art nouveau, con l’eleganza del segno e la leggerezza delle atmosfere come chiavi di volta. In un versante culturale più raffinato ed esclusivo, l’inizio del secolo vede anche il manifestarsi di un altro e ben diverso versante espressivo, attraversato e da inquiete correnti tardo simboliste, in parte vicine a influenze mitteleuropee e secessioniste, e da fermenti futuristi e d’avanguardia, ancor più audaci e rivoluzionari. Allo scoppiare della guerra, sia le raffinate atmosfere Liberty sia le più innovative sperimentazioni avanguardiste, appaiono improvvisamente inadeguate a comunicare attraverso i vecchi e nuovi canali della illustrazione popolare, ora utilissimo veicolo di propaganda per parlare, con un linguaggio efficace e insieme rassicurante, tanto ai soldati che alla popolazione, sempre più invitata a sostenere, emotivamente e economicamente, il conflitto in corso. Questo avviene in misura ancora maggiore durante l’ultimo anno di guerra, quando l’istituzione da parte dello Stato maggiore dell’Esercito di un apposito servizio dedicato alla propaganda si preoccupa di confortare e rinvigorire la fede patriottica delle truppe anche attraverso la diffusione di giornali illustrati.
Ma come rispondono a questa nuova urgenza gli artisti e i professionisti dell’illustrazione, coinvolti e chiamati a comunicare, in un certo senso anche a vendere, la guerra? Molti degli illustratori attivi nelle redazioni di riviste come «San Marco», «La Trincea», «La Tradotta», «Il Montello», «La Ghirba» e «Signorsì» provengono dal mondo della grafica editoriale, dei giornali e dell’illustrazione di libri per l’infanzia, un genere che si era sempre più consolidato nell’Italia post risorgimentale, e il cui stile ora appariva utile per sostenere il carattere eminentemente educativo delle attività coordinate dal cosiddetto «Servizio P», che vedeva tra le fila dei suoi intellettuali e animatori un pedagogista del calibro di Giuseppe Lombardo Radice. La vocazione edificante, i toni di monito, incitamento, scherzoso supporto psicologico usati di volta in volta nelle diverse rubriche, negli articoli e, in modo ancora più immediato e empatico, attraverso le immagini, erano del resto dopo Caporetto chiare direttive dello Stato maggiore, e obiettivo primario dei giornali destinati ai soldati.
Uno stile giocoso e fantastico ereditato da quel mondo e il ricorso a caricature e deformazioni satiriche che rappresentano appena una leggera evoluzione di gusto rispetto a ciò che si ritrova nei giornali del tardo Ottocento caratterizzano questa fase comunicativa, nella quale emergono nuove esperienze figurative come quelle di Umberto Brunelleschi e Antonio Rubino.
In mostra è possibile vedere anche vignette pressoché sconosciute del grande cartellonista Leonetto Cappiello e le produzioni di autori meno noti al grande pubblico come Enrico Sacchetti, Filiberto Mateldi, Bruno Angoletta e Primo Sinopico. Sono esposte anche le prime prove pubbliche di giovanissimi soldati come Giorgio De Chirico, Carlo Carrà e Ardengo Soffici, che pubblicano sulla rivista «La Ghirba», ma anche i lavori di Mario Sironi, autore qui di vignette dai tratti brutali e dai toni scurissimi e tetri che saranno propri della sua successiva produzione, e del poeta paroliberista Francesco Cangiullo.
Mentre sulla «Trincea» e sul «Signorsì» è protagonista il disturbante e poco classificabile Aroldo Bonzagni, illustratore sospeso tra un simbolismo «maledetto» e un crudo realismo di matrice quasi espressionista,già firmatario nel 1910 del Manifesto dei pittori futuristi.
«Dalle migliaia di illustrazioni e vignette pubblicate in quei mesi di guerra, dalle decine e decine di nomi di artisti più o meno noti al pubblico, emerge, dunque, una varietà e ricchezza di esiti e ricerche che rende singolarmente feconda l’esperienza della illustrazione di guerra, -afferma ancora Anna Villani- e il Fondo Luxardo una miniera di materiali e di fonti il cui interesse e il cui valore figurativo e di testimonianza superano la contingenza storica per arrivare – intatti – fino a noi».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Luigi Daniele Crespi, «Cravatte», copertina de «La Trincea», n.35 (ultimo numero), 16 gennaio 1919; [fig. 2] Antonio Rubino, «L’ardito si diverte», «La Tradotta», n.18, 15 ottobre 1918; [fig. 3] Ardengo Soffici, «Trecentomila morti in un mese Generale!... » , copertina de «La Ghirba», n.3, 21 aprile 1918[fgi. 4] Leonetto Cappiello, «L’uragano dell’ovest», «Sempre avanti», 1918, n. 8, 27 ottobre 1918

Informazioni utili 
«L’offensiva su carta». Musei civici udinesi - Castello di Udine, piazzale del Castello, 1 - Udine. Orari: fino al 30 aprile 2017 e dal 1° ottobre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 17.00; dal 1° maggio al 30 settembre 2017, da martedì a domenica, dalle ore 10.30 alle ore 19.00; chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 4,00. Informazioni utili: tel. 0432.1272591 o civici.musei@comune.udine.it. Fino al 7 gennaio 2018.


domenica 23 luglio 2017

Piranesi e le antichità romane

«È così pieno dell'aria, del cielo, del suolo di Roma, da ritrarla con prodigiosa fedeltà e da farla comparire come per incanto innanzi agli occhi di chi non l'ha ancora veduta». È ben raccontato in queste parole dello scrittore Giuseppe Rovani l'innamoramento a prima vista per la Città Eterna del giovane Giovan Battista Piranesi (Mogliano Veneto, 4 ottobre 1720 – Roma, 9 novembre 1778), qui giunto a soli vent'anni, nel 1740, al seguito dell'ambasciatore veneziano Francesco Venier. Con le «parlanti ruine» dell’Urbe l’architetto veneto instaura subito un dialogo personalissimo: le analizza, le studia, le reinventa dando vita a una miriade di strepitose opere grafiche che cristallizzano nel tempo la grandezza dell’antico passato capitolino.
Il Ponte e Castel Sant’Angelo, piazza di Spagna, il Campidoglio e la sua scalinata, il Pantheon, le grandi basiliche cittadine, il porto di Ripetta con i velieri che navigano lungo il Tevere: sono solo alcune delle bellezze architettoniche che l’artista fissa in un numero impensabile di schizzi, disegni, incisioni e acqueforti con l’intento di tutelare e salvaguardare la memoria di un mondo che sta scomparendo ed è sempre più al centro di quel viaggio di iniziazione e crescita culturale che è il Grand Tour internazionale.
È lo stesso Giovan Battista Piranesi a parlare, nel 1756, di questo suo intento documentarista: «vedendo che i resti degli antichi edifici di Roma, sparsi in gran parte negli orti e in altri luoghi coltivati, -si legge nel volume «Antichità romane»- diminuiscono giorno per giorno o per l’ingiuria del tempo o per l’avarizia dei proprietari che con barbara licenza li distruggono clandestinamente e ne vendono i pezzi per costruire edifici moderni, ho deciso di fissarli nelle mie stampe».
Quelle stesse stampe, dalle ardite visioni prospettiche e dai volenti effetti luministici, sono al centro della mostra «Piranesi. La fabbrica dell’utopia», a cura di Luigi Ficacci e Simonetta Tozzi, allestita fino al 15 ottobre a Roma, negli spazi di Palazzo Braschi.
Si tratta di oltre duecento opere grafiche, equamente ripartite tra la Fondazione Giorgio Cini di Venezia e le collezioni del museo romano, che ricostruiscono la parabola creativa di questo importante artista settecentesco, noto per aver applicato la matrice vedutistica della propria formazione veneta a una forte passione per l’archeologia e le antichità romane, delle quali rivendica la superiorità sia su quella dei barbari, sostenuta dall'inglese Ramsay, sia su quella greca, sostenuta dal tedesco Johann Joachim Winckelmann. Accanto a questi lavori grafici sono esposti anche i marmi, oggi conservati nelle collezioni della Sovrintendenza capitolina, derivati dalla celebre Forma Urbis severiana, la prima pianta di Roma fatta scolpire su pietra da Settimio Severo, che Giovan Battista Piranesi tentò di ricostruire nella sua originaria composizione. A completamento della mostra è, inoltre, possibile vedere delle immagini fotografiche di Andrea Jemolo dell’unica ed effettiva realizzazione architettonica lasciataci dall’artista veneto, ovvero la chiesa di S. Maria del Priorato, in cima al colle Aventino.
Tra le serie grafiche, il percorso espositivo, del quale rimarrà documentazione in un catalogo di De Luca editori d’arte, vede esposte, nello specifico, le grandi «Vedute di Roma», dalle amplificate prospettive architettoniche, i fantasiosi «Capricci», eseguiti ancora sotto l’influsso di Tiepolo, le celeberrime e suggestive visioni della serie delle «Carceri», fino alle varie raccolte di antichità romane, rese con prospettive fedeli, quasi fotograficamente perfette e attente ai più minuti dettagli.
Dalla Fondazione Cini provengono, inoltre, le realizzazioni tridimensionali di alcune invenzioni piranesiane mai realizzate e ricavate dal ricchissimo repertorio delle «Diverse Maniere di adornare i Cammini» (1769) o di alcuni pezzi antichi, riprodotti e divulgati da Piranesi nella serie dei «Vasi candelabri cippi sarcofagi tripodi…» (1978), come il celeberrimo tripode del Tempio di Iside a Pompei, vero e proprio masterpiece dell’arredo neoclassico e Impero. Le ri-creazioni piranesiane tridimensionali sono state realizzate dall’Atelier Factum Arte di Madrid, diretto da Adam Lowe, tramite modellazione in 3D e procedimento stereolitografico, in occasione della mostra «Le arti di Piranesi. Architetto, incisore, antiquario, vedutista, designer», organizzata dalla Fondazione Giorgio Cini nel 2010.
Dall’intera mostra emerge il volto di un artista che, stando alle parole di Luigi Ficacci, «fu un innovatore decisivo per la storia dell’acquaforte e tale è riconosciuto, nello specifico scientifico: il suo lessico calcografico, per l’inedita varietà tonale delle morsure e gli effetti dell’inchiostrazione, così come per la sconosciuta qualità del cromatismo grafico, produssero conseguenze determinanti presso le individualità artistiche che, nei secoli e fino all’attualità, vi si riferirono, restandone segnate secondo modalità assolutamente proprie e spesso non coincidenti con lo sviluppo storico complessivo della storia del gusto».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giovanni Battista Piranesi Mausoleo di Cecilia Metella, 1762, acquaforte, Museo di Roma; [Fig. 2] Giovanni Battista Piranesi , Veduta del Campidoglio e di S. Maria d'Aracoeli,1746-1748, acquaforte, Museo di Roma; [fig.3] Giovanni Battista Piranesi, Basilica di San Sebastiano, 1750-1760, acquaforte, Museo di Roma; [fig. 4] Foto di Andrea Jemolo, Tempio di Giano, da Vedute di Roma, 1745-1778

Informazioni utili 
«Piranesi. La fabbrica dell’utopia». Museo di Roma - Palazzo Braschi, piazza Navona, 2 o piazza San Pantaleo, 10 – Roma. Orari: dal martedì alla domenica, dalle ore 10.00 alle ore 19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.00); chiuso il lunedì. Ingresso (solo alla mostra): intero € 9,00; ridotto € 7,00; speciale scuola € 4,00 ad alunno (ingresso gratuito ad un docente accompagnatore ogni 10 alunni); speciale famiglia € 22,00 (2 adulti più figli al di sotto dei 18 anni); per altre tariffe è possibile consultare il sito www.museodiroma.it. Informazioni: tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 - 19.00). Sito internet: www.museodiroma.it. Fino al 15 ottobre 2017.