ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

venerdì 16 giugno 2017

Alighiero Boetti tra Lugano e Venezia

È la storia di un’amicizia cementata dai colori e dalle forme della pittura quella che va in scena a Lugano, negli spazi del Masi - Museo d’arte della svizzera italiana. Al centro del percorso espositivo, che vede la curatela di Bettina Della Casa, ci sono Alighiero Boetti (1940–1994) e Salvo (1947–2015), due fra le figure più originali della scena artistica italiana della seconda metà del Novecento, che iniziarono la loro attività sul finire degli anni Sessanta a Torino, città in quel periodo teatro di particolare fermento artistico e intellettuale, e che lì, dal 1969 al 1971, condivisero lo studio in corso Principe Oddone 88.
«Vivere lavorando giocando», questo il sottotitolo dell’esposizione tratto da una citazione di Salvo sul suo rapporto lavorativo e amicale con Alighiero Boetti, ripercorre attraverso centocinquanta opere la storia di un’avventura in cui «giocare con l’arte era – per usare le parole degli organizzatori- attività rigorosa, avvincente ed irrinunciabile».
L’esposizione principia dal finire degli anni Settanta, periodo di particolare rinnovamento della Torino dell’Arte povera, allora animata da spazi vitali e innovativi quali le gallerie Sperone, Notizie e Christian Stein. In quegli anni Alighiero Boetti è orientato verso una costante riformulazione della sua identità d’artista: l’idea di autorialità, di messa in scena del soggetto nel suo raddoppiarsi, moltiplicarsi o perdersi è ossessivamente presente nella sua ricerca. Parallelamente il tempo, inteso sia come oggetto di riflessione sia come attiva forza creatrice, diviene motivo di sfida e confronto costante. Nello stesso periodo prende avvio la fascinazione per l’«ordine e disordine» dei fenomeni della realtà indagati dall’artista alla ricerca di un sistema di regole, leggi, criteri ordinatori che, applicati a parole e immagini, dettino la configurazione dell’opera su spazi bidimensionali.
Per Salvo quegli stessi anni rappresentano il momento di affermazione della propria identità attraverso un processo di storicizzazione venato di ironia; intorno al 1973 si ha, invece, la sua virata verso una pittura figurativa intrisa di riferimenti alla storia dell’arte, scelta del tutto insolita in quella stagione di concettualismo dominante.
Il percorso espositivo continua con una sezione intitolata «Infinita varietà del tutto», nella quale si mettono a fuoco gli sviluppi successivi delle rispettive ricerche condotte ormai in modo completamente autonomo. A partire dal 1972, anno del trasferimento di Alighiero Boetti a Roma, rimane tra i due artisti una comune adesione a temi quali l’identità, il viaggio o la morte, ma è la concezione stessa della superficie bidimensionale nell’uno e della pittura nell’altro a dividerli irrimediabilmente. Salvo, da metà degli anni Settanta, si dedica al mezzo pittorico in modo totalizzante, mentre Alighiero Boetti si orienta, sebbene non esclusivamente, verso la pratica concettuale della proliferazione e della delega assegnando cioè ad assistenti, collaboratori e artigiani, a volte a lui sconosciuti, la realizzazione delle opere, spesso concepite in serie, cicli o varianti. Entrambi aprono la strada a una molteplicità di linguaggi e tecniche offrendo un fondamentale contributo alla riflessione concettuale degli anni Sessanta e Settanta del Novecento; ciò li rende ancora oggi importanti figure di riferimento per le generazioni di artisti post-concettuali del ventunesimo secolo.
L’esposizione è completata da un focus allo Spazio -1. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati sul clima artistico e culturale di Torino tra gli anni Sessanta e Settanta/b>, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto e Mario Merz solo per fare qualche esempio.
Ad Alighiero Boetti dedica una mostra anche la Fondazione Giorgio Cini di Venezia che, nei primi giorni di apertura della Biennale d’arte, propone «Minimum / Maximum», a cura di Luca Massimo Barbero.
Attraverso ventidue opere, che coprono un periodo di circa tre decenni, il visitatore viene invitato ad analizzare un tema specifico della poetica boettiana, per certi versi inedito, quale quello del rapporto tra il formato minimo e massimo.
Il percorso espositivo prende le mosse, nella sala Carnelutti, con il confronto tra il più grande e il più piccolo (1966) «Mimetico», e prosegue con le due opere selezionate per la serie «Biro», il grande dittico «Mettere al mondo il mondo» (1972-73) e il piccolo «Ritratto di Giorgio Colombo». Si passa poi ai «Bollini» con l’imponente, e ancora poco conosciuta al pubblico, mappa «Estate 70»: venti metri di carta da parati grezza, quadrettata a matita, sulla quale l’artista ha incollato migliaia di adesivi colorati a formare combinazioni sempre maniacalmente diverse. Gli fa da contraltare «Senza titolo» del 1968, dove i bollini sono ugualmente protagonisti, ma con dimensioni ridotte (70 x 100 centimetri).
In mostra è rappresentata anche la serie «Alternando da uno a cento e viceversa» con l'opera più piccola (1979), una tecnica mista su carta quadrettata intelata, e il grande kilim del 1993 di quasi tre metri di lato.
Un ulteriore confronto vede protagonista il «Storia naturale della moltiplicazione», con la combinazione di dodici elementi da una parte e il singolo modulo dall’altra, entrambi del biennio 1974-75.
L’ultima parte della sala è, quindi, riservata a due serie di grande fascino e impatto: gli «Aerei», con il grande trittico del 1989 (inchiostro e acquarello su carta intelata di 3 metri di lunghezza complessivi) e il piccolo del 1983 (biro su carta, 23x50), e due «Lavori postali». Il maximum della serie è un’opera composta da settecentoventi buste affrancate e timbrate suddivise in sei pannelli (1972), mentre il minimum è composto da sei buste (1970).
Fra la prima e la seconda sala è in esposizione il documentario Niente da vedere Niente da nascondere, realizzato nel 1978 da Emidio Greco in occasione della retrospettiva dedicata a Boetti alla Kunsthalle di Basilea, che alterna immagini della mostra svizzera a momenti nello studio romano dell’artista, importante perché ridà testimonianza diretta delle parole dell'artista.
Il percorso espositivo prosegue nella sala Piccolo Teatro con il confronto tra i rari «Ricami» monocromi -il grande «Titoli» (1978) e il piccolo «Ordine e disordine »(1989)- e, quindi, con i ricami «Tutto e Mappe», con due grandi formati ciascuno dei quali di quasi 6 metri di lunghezza.
Infine la seconda sala ospita due opere del ciclo delle «Copertine»: il volume «1984» che contiene duecentosedici fotocopie xerox rilegate e «Copertine (Anno 1984)», monumentale lavoro costituito da dodici quadri, ciascuno per un mese dell’anno, nei quali sono state ridisegnate a matita su carta e a grandezza naturale complessivamente duecentosedici copertine delle più importanti riviste italiane e straniere del tempo, secondo un ordinamento cronologico. Scriveva nel 1984 Boetti: «In quell’anno le immagini erano milioni. Oggi, forse qualche centinaio, poi rimarrà solo questa copia sbiadita di un tempo coloratissimo».
Da questa serie ha preso spunto il progetto «Colore=Realtà. B+W=Astrazione (a parte le zebre)», nato da un’idea di Hans Ulrich Obrist, direttore artistico delle Serpentine Gallery di Londra, e di Agata Boetti, che riflette sul tema della fotocopia.
L'esposizione riunisce per la prima volta un insieme di opere eseguite con la fotocopiatrice nei diversi momenti della carriera dell’artista: da alcune opere concettuali e metodiche della fine degli anni Sessanta, come «Nove Xerox Anne Marie» (1969), «Autoritratto» (1971) e l’enigmatico «Dossier Postale» (1969-70), a opere legate alla profusione e alla rappresentazione di informazione cartacea dell’inizio degli anni Novanta. Protagonisti del progetto sono in particolare I «15 libri rossi-111», quindici volumi contenenti ciascuno centoundici fotocopie Xerox, dei quali è possibile scoprire interamente il contenuto grazie alla riproduzione e all’allestimento a parete di tutti i 1.665 A4 contenuti nei volumi.
Al centro della sala dedicata alle fotocopie, i visitatori sono, inoltre, invitati a utilizzare una vera e propria fotocopiatrice, seguendo le regole del gioco appositamente create dall’artista messicano Mario Garcia Torres per rendere omaggio ad Alighiero Boetti, e avranno così a disposizione 11.111 fogli di carta rossa per fotocopiare qualsiasi cosa vogliano.

Didascalie delle immagini
[Fig . 1] Alighiero Boetti, Oggi è il diciannovesimo giorno sesto mese dell’anno mille novecento ottantotto all’amato Pantheon (Today it's the 19th day 6th month in the year 1988 at the beloved Pantheon), 1988. Ricamo su tela (625 quadrati),  106 x 115 x 2,8 cm. Collezione Colombo, Milano Photo: Giorgio Colombo, Milano; [fig. 2] Salvo, 57 pittori italiani, 1975. Olio e matita su tavola,  95,4 x 79 cm Eredi Colnaghi Photo: Agostino Osio, Milano; [fig. 3] Alighiero Boetti e Salvo a Vernazza, 1969. Photo: Anne Marie Sauzeau; [fig. 4] Alighiero Boetti, Mappa, 1989-1994. Ricamo su tessuto, 254 x 588 cm. Firenze, Collezione Roberto Casamonti. Courtesy, Tornabuoni Arte; [fig. 5] Alighiero Boetti, Aerei, 1989. Inchiostro e acquarello su carta intelata, cm 150 x 3000. Parigi, Collezione Carmignac; [fig. 6] Veduta della mostra veneziana alla Fondazione Cini

Informazioni utili
Boetti/Salvo. Vivere lavorando giocando. LAC - Lugano Arte e Cultura, piazza Bernardino Luini, 6 - Lugano. Orari: martedì–domenica, ore 10:00–18:00; giovedì aperto fino alle ore 20:00; lunedì chiuso. Ingresso: intero chf 15.-, ridotto chf 10.- (AVS/AI, over 65 anni, gruppi, studenti 17-25 anni), gratuito 16 anni e ogni prima domenica del mese. Informazioni: +41(0)588664230 oinfo@masilugano.ch. Sito internet: www.masilugano.ch. Fino al 27 agosto 2017.

Alighiero Boetti. Minimum /Maximum. Fondazione Giorgio Cini - Isola di San Giorgio (Venezia). Orari: 11.00-19.00; chiuso il mercoledì. Ingresso libero. Informazioni:  tel. 041. 2710230 o arte@cini.it. Sito web: www.cini.it. Fino al 12 luglio 2017.

giovedì 15 giugno 2017

Da Boetti a Pistoletto, le mostre della Fondazione Cini durante la Biennale

Sono quattro i progetti espositivi che l’Isola di San Giorgio Maggiore ha messo in cantiere per i primi mesi di apertura della Biennale d’arte. Si inizia con un evento collaterale della cinquantasettesima edizione della Mostra internazionale d’arte: «Yesterday/Today/Tomorrow: Traceability is Credibility», un progetto dell’artista irlandese Bryan Mc Cormack che racconta l’odissea dei rifugiati.
Cuore del progetto, visibile fino al prossimo 13 agosto, è la visualizzazione della crisi europea dei migranti e l’avvio di un programma di ricerca per la raccolta, conservazione e interpretazione di questi dati visivi.
L'artista, trascorrendo più di un anno in decine di campi in tutta Europa, ha lavorato con centinaia di profughi di diverse nazionalità chiedendo loro di realizzare tre disegni distinti con delle penne colorate: uno della vita passata («Yesterday-Ieri»), uno della vita presente («Today-Oggi») e uno di come si immaginano la vita futura («Tomorrow-Domani»). I disegni così raccolti costituiscono dei blocchi visivi che formano il cuore dell’installazione.
Il progetto vuole dare una voce a questi rifugiati anche tramite i social media. Ogni giorno verranno caricate su Facebook, Instagram e Twitter tre immagini dei disegni realizzati dai rifugiati. In questo modo l’artista vuole sensibilizzare il mondo alla crisi dei migranti eliminando le barriere linguistiche e culturali.
Poco distante è visibile una nuova scultura site-specific dell'artista americana Pae White: «Qwalala». Si tratta di un muro curvo, lungo 75 metri e alto di 2,4 metri, realizzato con oltre tremila lingotti di vetro colati a mano dall’azienda veneta Poesia Glass Studio.
Ciascun mattone è unico, frutto delle conformazioni imprevedibili e variabili proprie del processo di produzione artigianale. Circa la metà dei mattoni è in vetro trasparente mentre i restanti 1.500 spaziano tra una gamma di ventisei colori, risultato di una tecnica per cui ogni mattone contiene un effetto tempesta: un turbinio di colori, pur rimanendo trasparente. In questo progetto i singoli mattoni rappresentano i moduli di un caos contenuto. L'artista combina i mattoni per comporre ciò che da lontano sembra un modello pittorico astratto ma che, a un esame più attento, rivela mondi inaspettati di particolari. I tenui blu, verdi, rosa, grigi e marroni della tavolozza sono tratti dai colori utilizzati nell’arte vetraria romana del primo secolo creati dalla presenza di zolfo, rame, manganese e altri metalli e minerali.
Il progetto rientra nell’iniziativa «Le stanze del vetro» che, in questi mesi, propone anche la mostra «Ettore Sottsass: il vetro», a cura di Luca Massimo Barbero. L’esposizione presenta più di duecento pezzi, in gran parte provenienti dalla collezione di Ernest Mourmans e molti dei quali mai esposti al pubblico, secondo un allestimento innovativo disegnato da Annabelle Selldorf. Si tratta di una novità assoluta: è la prima volta che viene realizzata una mostra interamente dedicata alla produzione dell’architetto italiano nel campo dei vetri e dei cristalli; per l’occasione è stato pubblicato anche il primo compendio delle le sue opere in vetro, edito da Skira.
Luca Massimo Barbero, direttore dell’Istituto di Storia dell’arte della Fondazione Giorgio Cini, cura anche la mostra «Alighiero Boetti: Minimum/Maximum», realizzata con la collaborazione dell’Archivio Alighiero Boetti e di Tornabuoni Art. L’esposizione presenta il risultato di un processo inedito di selezione e confronto: quello tra il formato minimo e massimo di opere dei cicli più rappresentativi dell’artista, focalizzando così uno dei temi che meglio rappresentano l’operatività creativa dell’artista torinese. All’interno del percorso sarà compreso un progetto speciale, a cura di Hans Ulrich Obrist e Agata Boetti, incentrato sul tema della fotocopia.
All’isola di San Giorgio è visibile, infine, anche il progetto ideato da Michelangelo Pistoletto per la cinquantasettesima edizione della Biennale di Venezia. La mostra, concepita per gli spazi della Basilica di San Giorgio Maggiore e le adiacenti Sala del Capitolo e Officina dell’Arte spirituale, riflette sul destino dell’uomo e l’urgente necessità di un cambiamento sociale radicale.
«Suspended Perimeter – Love Difference», una serie di specchi posizionati in circolo, apre la carrellata di opere esposte fino al prossimo 26 novembre a Venezia. Tra di esse, oltre agli autoritratti del periodo giovanile e alla celebre «Venere degli stracci», si può vedere, nella Sala del Capitolo, «Il Tempo del Giudizio»: le quattro religioni più diffuse nel mondo - Cristianesimo, Buddismo, Islamismo, Ebraismo - sono indotte a riflettere ciascuna su se stessa, come momento di radicale auto-confessione. Ciascuna religione è rappresentata da un elemento simbolico posto davanti a uno specchio: una statua di Buddha, un tappeto per la preghiera rivolto verso la Mecca, un inginocchiatoio. Fa eccezione l’Ebraismo che si presenta come specchi a forma di tavole della legge.
Le varie opere esposte mettono in luce la genesi dell’opera di Pistoletto e dell’immagine come identificazione fenomenologica dello spazio-tempo, accompagnandoci fino alle opere più recenti dove l'artista continua a lavorare con l’immaginazione e a configurare uno scenario che si apre verso il futuro, lasciando ancora una volta aperto quel flusso «tridinamico» del tempo che include inevitabilmente passato, presente e futuro.

Informazioni utili
www.cini.it

mercoledì 14 giugno 2017

Gaetano Pesce e Corrado «Dino» Martens: due mostre sul vetro per «Muve contemporaneo»

C’è anche l’isola di Murano tra gli scenari di «Muve contemporaneo», progetto nato nel 2013 per iniziativa di Gabriella Belli che, nei mesi della Biennale d’arte, apre le porte dei Musei civici di Venezia con l’intento di mostrare il loro volto non solo di depositari della memoria storica della città, ma anche di promotori di un’indagine critica e di un’esplorazione sui linguaggi più attuali della ricerca creativa.
Sono, infatti, due le mostre che il Museo del vetro accoglie in questi giorni. La prima, allestita fino al 17 settembre per la curatela della stessa Gabriella Belli e di Françoise Guichon e Chiara Squarcina, presenta un focus sulla produzione di Gaetano Pesce. Cinquanta i pezzi esposti che, tramite un innovativo allestimento ideato dallo stesso autore, ripercorrono, anche grazie a una selezione di fotografie, le varie tappe della sperimentazione dell’architetto e designer spezzino con il vetro, proponendo una carrellata di oggetti disegnati e realizzati tra il 1988 e il 1992 in collaborazione con il Cirva - Centro di sperimentazione del vetro di Marsiglia.
In quei quattro anni Gaetano Pesce ha lavorato nella città francese una settimana ogni due mesi mettendo a punto le sue «cinque tecniche per il vetro» chiamate Pastis, Joliette, Vieux Port, Pâte de Verre e Plage.
Come spiega la curatrice Françoise Guichon, che ai tempi era direttrice del Cirva, questi metodi di lavoro «fanno uso di vetri elaborati precedentemente dall’industria e la loro denominazione ne sottolinea la natura d’origine: polvere di vetro per Plage, perle di vetro colorato per Joliette, frammenti di vetro piatto colorato, spesso appuntiti e messi gli uni accanto agli altri come «barchette» per Vieux-Port, bottiglie per Pastis».
La Guichon ricorda ancora con queste parole l’artista spezzino: «Come si fa sempre, per valutare la realizzazione delle sue idee Gaetano Pesce procedeva di persona a eseguire i primi test. In camicia, i polsini perfettamente inamidati, protetto solamente da un grosso guanto di tela ignifuga, teneva con un braccio una pistola che spruzzava del vetro in fusione su un supporto posto nella gola rovente di un forno spalancato».
L’esposizione, per lo spirito indagatore e la volontà narrativa volta a testimoniare un’importante fase creativa dell’architetto e designer, si focalizza in modo esaustivo su queste tecniche e sul loro linguaggio espressivo, mostrando come, nel plasmare il vetro, Gaetano Pesce sappia coniugare al meglio, con risultati inaspettati e giocosi, la sua eccezionale sensibilità formale con l’intemperanza di un materiale straordinario.
«Ho pensato che non fosse necessario, con questo lavoro con il vetro, apportare letture che si situassero ad altri livelli rispetto a quello dell’innovazione tecnica -commenta lo stesso autore-. Perché? Perché fare ciò significa già affermare un grande contenuto: bisogna ricercare, bisogna guardare avanti. Oggi abbiamo bisogno di investire nel progresso, cosa che abbiamo dimenticato. Il progresso non è qualcosa di astratto e inutile. È qualcosa di un’utilità immensa».
Gaetano Pesce obbliga così il visitatore a mettersi in gioco con la sua arte «fuori dagli schemi, per usare le parole di Gabriella Belli, consueti di ciò che si dice essere appunto architettura, arte e design, fuori dai percorsi commerciali e industriali tout court, fuori dal mercato, e per certi aspetti, anche fuori dalla consuetudine di dover sempre mostrare bellezza o funzionalità».
In contemporanea, ma fino al 30 settembre, il Museo del vetro propone anche una mostra del pittore e disegnatore veneziano Corrado «Dino» Martens (1894-1970). Attraverso una sessantina di opere, selezionati da Chiara Squarcina, si ripercorre il lavoro dell’artista dal 1938 al 1965 presentando una selezione di serie iconiche come «Oriente», «Eldorado», «Fascia Bianca e Nera», «Arabesco» e «Pittorico», oltre ad alcuni importanti lavori singoli.
I lavori esposti, provenienti dalla collezione di Lutz Holz, testimoniano la straordinarietà del lavoro di Martens che imprimeva a tecniche tradizionali effetti incredibilmente originali attraverso combinazioni di audaci asimmetrie e inattese e irregolari sfumature cromatiche.
Il visitatore può così conoscere un artista capace di una naturale padronanza tecnico-scientifica, come dimostrano chiaramente i disegni e le annotazioni presentate in mostra. La sua precisione e attenzione per il dettaglio lo portarono, dapprima, a lavorare come creatore nella ditta Successori Andra Rioda, dove poté eseguire i suoi esperimenti come la serie di oggetti in filigrana e i vasi in vetro soffiato delle pareti sottilissime. Corrado «Dino» Martens si spostò, quindi, alla vetreria di Aureliano Toso che, da direttore artistico, trasformò in una delle più innovative dell’isola. Frutto, questo, di un lavoro che, insieme con tanti altri maestri vetrai di ieri e di oggi, rende Murano uno degli angoli più affascinanti della Laguna veneta.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Dino Martens, Piatto: Oriente Dandola, 1954 – XX Secolo; [fig. 2] Dino Martens, Vaso: Oriente Osellare Congo, 1952 – XX Secolo; [fig. 3] Gaetano Pesce, Le debut, Collezione CIRVA 88-92

Informazioni utili
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martedì 13 giugno 2017

Da Shirin Neshat alla collezione Carraro, le mostre dei Musei civici veneziani per la Biennale

È ricco il cartellone di eventi che i Musei civici di Venezia hanno ideato in occasione della cinquantasettesima Mostra internazionale d’arte contemporanea con l’intento di essere non solo depositari della memoria storica della città, ma anche promotori di un’indagine critica e di un’esplorazione sui linguaggi più attuali della ricerca creativa. «Muve contemporaneo», progetto nato nel 2013 per iniziativa di Gabriella Belli, giunge così alla sua terza edizione anche grazie alla collaborazione con prestigiose istituzioni internazionali come il Lacma di Los Angeles, il Guggenheim di Bilbao, il Museum of Fine Arts di Boston, la Royal Academy di Londra e la Phillips Collection di Washington.
Il Museo Correr -che si affaccia su piazza San Marco, cuore pulsante della città lagunare- apre, per esempio, le sue porte a Shirin Neshat con la mostra «La casa dei miei occhi», per la curatela di Thomas Kellein, che espone parte dell’omonima serie di ritratti scattati dall’artista iraniana, di stanza a New York, tra il 2014 e il 2015 in Azerbaijan, Paese crocevia di tante lingue, etnie e religioni.
Il risultato è un grande arazzo di ventisei volti umani, sistemati in pose e abiti simili su uno sfondo scuro, che rimarrà collocato fino al prossimo 26 novembre nella Sala delle Quattro porte al secondo piano del palazzo veneziano, nell’ambito del percorso permanente.
Quasi tutte le persone raffigurate hanno le mani giunte; questo dettaglio è un richiamo ai dipinti religiosi cristiani e in particolare a quelli di El Greco. Sullo sfondo delle stampe, impresse su gelatina d’argento, appaiono testi calligrafici scritti in inchiostro che Shirin Neshat ha in parte tratto da poesie di Nizami Ganjavi, scrittore iraniano del XII secolo che visse in quello che è oggi l’Azerbaijan.
Nella stanza vicina a questa ipnotica installazione -che circonda una bella Madonna gotica in legno, tesoro della collezione dei Musei civici veneziani- è possibile vedere anche il video «Roja» (2016), riflessione, a partire dai sogni e dai ricordi della stessa artista, sulla nostalgia di legami di una donna iraniana per la sua terra e sul tema, quanto molto attuale, della migrazione e dello sradicamento dalle proprie radici.
Al Correr, fino al prossimo 10 settembre, è esposta anche una piccola mostra di Roger de Montebello, per la curatela di Jean Clair. Il lavoro dell’artista franco-americano -affermano gli organizzatori- «si potrebbe definire borderline, al limite tra astrazione e figurazione, sempre guidato da una poetica della luce di grande efficacia, con effetti in bilico tra pensiero e sensazione, che gli fanno esplorare, in una visione quasi metafisica, dettagli delle cose o delle persone, porte sull’acqua, alberi, volti, architetture affacciate sui canali veneziani, specchi in cui si riflettono immagini di architetture».
Sempre in piazza San Marco, ma nel vicino Palazzo ducale, «Muve contemporaneo» propone in anteprima mondiale, e fino al prossimo 24 novembre, il nuovo video dell’artista scozzese Douglas Gordon: «Gente di Palermo». Si tratta di un filmato amatoriale di due minuti o poco più girato dallo stesso artista con il cellulare durante una visita casuale alla Cripta dei Cappuccini a Palermo, un vasto e celebre cimitero sotterraneo che conserva migliaia di cadaveri imbalsamati ed esposti ai visitatori in lunghi e tetri corridoi.
Qui, tra le mummie dei più piccoli, Douglas Gordon si è imbattuto per caso in un delfino gonfiabile abbandonato, che fluttuava verso il soffitto. Il macabro contrasto tra l’aspetto ludico del palloncino e la drammaticità del contesto, tra la vita e la morte, è stato sintetizzato in pochi fotogrammi carichi di pathos, nei quali si racconta la macabra ironia della sorte che porta un giocattolo da luna park tra i corpi di bambini che non potranno giocare mai più.
Il percorso tra le mostre più significative di «Muve contemporaneo» non può non fare tappa a Palazzo Fortuny, dove è allestita fino al prossimo 27 novembre la mostra «Intuition», curata da Daniela Ferretti e Axel Vervoordt, con Dario Dalla Lana, Davide Daninos e Anne-Sophie Dusselier.
Artefatti antichi e opere del passato dialogano con manufatti contemporanei creando una riflessione, colta e affascinante, sui concetti di intuizione, sogno, telepatia, fantasia paranormale, meditazione e potere creativo, per giungere all’ipnosi e all’ispirazione.
Da Vassily Kandinsky a Paul Klee, da Kazuo Shiraga a Lucio Fontana, da André Breton a Joseph Beuys, senza dimenticare le sperimentazioni fotografiche di Raoul Ubac e Man Ray, le opere su carta di Henry Michaux e Joan Miró o le sperimentazioni di figure cruciali dell’attualità come Marina Abramovic e Anish Kapoor, il percorso espositivo analizza i meccanismi segreti della genesi creativa e intellettuale, soffermandosi su quei «lampi improvvisi» che ci permettono di acquisire conoscenze senza prove, indizi o ragionamento cosciente. Ad aprire la carrellata di opere in mostra sono una serie di menhir del periodo Neolitico, provenienti da antiche civiltà europee, che creano un'immediata correlazione tra cielo e terra e che da soli meritano una visita a Palazzo Fortuny.
Interessante è anche la proposta espositiva di Palazzo Mocenigo che, fino al 1° ottobre, presenta nella sua White Room la mostra «Trasformation», a cura di Inger Wästberg, con le opere-gioiello di sei artiste svedesi le cui creazioni sono già al museo nazionale di Stoccolma.
Quelli esposti non sono monili convenzionali, ma manufatti che contengono messaggi, simbolismi e riferimenti subliminali, oltre a essere ornamenti esteticamente belli e affascinanti. Metà delle artiste in mostra lavora con materiali semplici e poco costosi: ecco così -accanto ai lavori di Tobias Alm, Hanna Hedman e Märta Mattsson- le collane di crine di cavallo di Agnes Larsson, l’uso fantasioso delle pelli di salmone e pesce persico di Catarina Hallzon o la corda di cotone usata nelle collane di Sara Borgegard Alga, a sottolineare come il significato artistico possa apportare valore a un pezzo più delle pietre preziose.
Nello stesso museo, ma fuori dal circuito «Muve contemporaneo», merita una visita anche la mostra «Cabinet of Curiosities. La collezione Storp», allestita nel Pòrtego del piano nobile del palazzo per la curatela di Gergana von Heyking. «Naturalia», «Artificialia» e «Mirabilia» sono le tre sezioni in cui è divisa l’esposizione, che allinea una selezione di flaconi e contenitori per profumi, occasione creativa per esercitazioni virtuosistiche, dove il talento del design e dell’esecuzione si accompagna alla scelta di materiali pregiati, come l’oro e l’argento, e a tecniche sofisticate, come gli smalti e l’incisione, capaci di emulare in un prodigioso equilibrio estetico e cromatico la perfezione della natura che può mettere a disposizione materiali speciali come corazze di animali marini, piante e cortecce esotiche.
Poco distante da Palazzo Mocenigo merita una visita Ca’ Pesaro che, in occasione della Biennale d’arte, presenta un nuovo allestimento delle sue collezioni permanenti con l’inserimento, alle Sale 6 e 7, delle opere provenienti dalla raccolta di Chiara e Francesco Carraro. Ottantadue le opere che compongono il lascito, compresi come la splendida collezione di vetri che vede la firma, tra gli altri, di Ercole Barovier, Carlo Scarpa, Fulvio Bianconi, Napoleone Martinuzzi, Archimede Seguso, Paolo Venini e Vittorio Zecchin, o rare creazioni di arredamento di inizio del Novecento, con nomi di grido come quelli di Eugenio Quarti e Carlo Bugatti. Accanto a questi lavori è esposta una selezione di sculture e dipinti di grande livello, che spazia dal grande «Polittico Garagnani» (1957) di Gino Severini, restaurato per l’occasione, alle nature morte di Giorgio Morandi, dagli affascinanti ritratti borghesi di Antonio Donghi, tra cui si segnalano «Gli amanti alla stazione» e «Le villeggianti», alla bella formella in marmo «Maria dà luce ai pargoli cristiani» di Adolfo Wildt, senza dimenticare le sculture «La Pisana» e «Il bevitore» di Arturo Martini.
L’acquisizione a lungo termine della collezione Carraro ha offerto anche l’occasione per ripensare l’intero percorso espositivo, ora arricchito da opere provenienti dai depositi che danno conto di un movimento nato proprio in questo palazzo, quei «Ribelli di Ca’ Pesaro» che negli anni tra il 1908 e il 1924 videro il coinvolgimento di nomi quali Umberto Boccioni e Gino Rossi, o che omaggio artisti simbolo dell'arte contemporanea come Calder, Kandinskij, Klee, Picasso o Matisse.
Un programma, dunque, articolato quello offerto dai Musei civici veneziani per questa estate, che si completa con le mostre sulle isole di Murano e Burano dedicate alla sperimentazione contemporanee nel campo del vetro e del merletto di Gaetano Pesce, Dino Martens e Mario Bissacco, creando così un virtuoso cortocircuito tra ieri, oggi e domani «ideato -racconta Gabriella Belli- soprattutto per chi vive in questa città d’acqua e di terraferma, che nel consumo quotidiano della cultura può intravedere la nascita di una nuova identità. Tutto serve per proiettare la città nel futuro, portandosi appresso la grande storia del suo passato».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Shirin Neshat, «Anna», from «The Home of My Eyes» series, 2015. Silver Gelatin Print and Ink, 152.4 x 101.6cm (40 x 60 in). Courtesy Written Art Foundation, Frankfurt am Main, Germany; [fig. 2] Shirin Neshat, «Javid», from «The Home of My Eyes» series, 2015. Silver Gelatin Print and Ink, 152.4 x 101.6cm (40 x 60 in). Courtesy Written Art Foundation, Frankfurt am Main, Germany; [fig. 3] Roger de Montebello, «Porta delle Terese», 2014. Oil on canvas, 140x190cm; [fig. 4] Douglas Gordon, un frame del video «Gente di Palermo», 2017; [fig. 5] Giorgio Morandi, «Natura morta», 1943. Opera esposta a Ca'Pesaro nell'ambito dell'allestimento per la presentazione della Collezione Carraro; [fig. 6] Scarabeo diamantato. Opera esposta nella mostra «Trasformation» a Palazzo Mocenigo; [figg. 7 e 8] Veduta della mostra «Intuition» a Palazzo Fortuny

Informazioni utili
Per notizie sugli orari di apertura e sui costi dei biglietti delle mostre in corso ai Musei civici veneziani è possibile consultare il sito http://www.visitmuve.it/.

lunedì 12 giugno 2017

Alla Rocca di Cento una mostra su Minguzzi

Sono oltre quaranta le opere scelte dalla città di Cento per rendere omaggio al grande artista Luciano Minguzzi (Bologna 1911 – Milano 2004). Sede dell’esposizione, allestita fino al 20 agosto, è la Rocca cittadina, sorta alla fine del ‘300 per volontà del vescovo di Bologna, il cui aspetto attuale è frutto dell’impronta voluta nel 1483 da Giuliano della Rovere, futuro Papa Giulio II.
L’intreccio tra tradizione e modernità è una costante nell’arte di Luciano Minguzzi che sulle orme di Arturo Martini, Giacomo Manzù e Marino Marini, guardava agli etruschi e all’Antelami, a Nicolò dell’Arca e a Jacopo della Quercia, per assimilarne la sintesi e la potente energia espressiva, e ugualmente ammirava la scomposizione e ricomposizione di Picasso e la capacità di far vibrare la materia di Medardo Rosso. Formatosi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna sotto la guida di Ercole Drei e Giorgio Morandi, e di Roberto Longhi all’università, soggiorna più volte a Parigi e nel 1951 si trasferisce a Milano dove prosegue la sua carriera verso il successo.
La mostra presenta opere caposaldo in un percorso emozionale e cronologico che rivela significative scoperte formali e tematiche, dove primitivismo, espressionismo e astrazione si intrecciano alimentandosi delle tendenze europee, in uno stile originale e unico.
Ad accogliere il visitatore nel piazzale della rocca, all’ingresso della mostra e in dialogo con la città, è la monumentale scultura «Grande contorsionista» (1952-89), di oltre due metri, tema molto amato dall’artista come quello degli «Acrobati» (1954) esposti nelle sale interne insieme a «Donna al trapezio», legno policromo del 1956, «Donna sul divano» (1990) e «Oplà», ultima creazione del 2000, evoluzione dinamica estrema degna del Giambologna o del Bernini che Minguzzi ha sempre ammirato, sfidando da par loro la materia.
La prima grande commissione pubblica, la V Porta del Duomo di Milano, vinta in concorso nel 1958 superando Lucio Fontana e inaugurata nel 1965, è documentata da bozzetti, disegni e dalle sculture lignee «Giangaleazzo Visconti a cavallo» e «Frate a cavallo», riprese dalle formelle narranti la storia della cattedrale. Un’opera volutamente figurativa e tradizionale nel racconto storico-religioso eppure lo stile tagliente e geometrico è in sintonia con i coevi esperimenti astratti, tra cui i «Sei personaggi» (1957), ambientati nel cortile della rocca, perché anche se Minguzzi non abbandona mai del tutto la figurazione negli anni del dibattito tra realismo e astrazione, accoglie nuovi stimoli, per esempio la scultura di Brancusi e di Harp, e raggiunge sorprendenti esiti.
In contemporanea nascono opere drammatiche come «Gli uomini del Lager» (1957), eseguita in ricordo della guerra e dopo la visita ai campi di Auschwitz, di cui si ammira in mostra il bozzetto; corpi scarnificati in scatole-sepolcro provviste di ante che si possano tramutare in giochi di chiuso-aperto, dentro-fuori, ripresi poi in «Fiori chiari» ispirata alla via milanese, in «Omaggio a Gagarin», eseguito dopo il viaggio a Mosca, opere del 1969, e ne «I coniugi del n. 7» (1972) inseriti in una finestra con vere e proprie persiane, da un ricordo rimasto impresso dall’infanzia. Lo stesso “espressionismo narrativo”, che mai prescinde da una componente grottesca, si ritrova nel tema degli animali, come il fantastico «Oronte» (1970) e la «Civetta in gabbia» (1952), a cui tocca una condizione di prigionia, e certamente nella grandiosa «Porta del Bene e del Male» (1970-77), nata per San Petronio a Bologna e poi commissionata da papa Montini per San Pietro in Vaticano. Le vicende religiose sono ancora una volta l’occasione per tracciare con ironia ed epos popolare momenti di profonda sacralità in cui il dramma del martirio o delle crocifissioni sono resi con quella gestualità violenta divenuta un segno di inequivocabile distinzione.
Tra le opere degli anni Ottanta, dedicate in modo più esplicito al sentimento del destino attraverso il mito, si possono ammirare «Dafne» (1981-84), l’inedita «Grande nuotatrice» (1992), tema desunto da Martini o Carrà, e l’omaggio al poeta Nievo morto naufrago in mare ovvero l’«Ippolito» del 1989, che rivelano un sentimento di calma e serena fiducia in ciò che ci attende. Di quegli anni sono anche grandi chine dalle tinte accese, arricchite da colate di vino rosso, spesso su manifesti pubblicitari riciclati sul retro, o i più crudi disegni in pandan con le sculture ispirate alla guerra, tra cui la «Fucilazione di Giovanni Minguzzi» (1991), zio del padre che venne fucilato nel 1851 dalle forze dell’ordine a Bagnacavallo perché aveva ospitato il bandito detto Passator Cortese. Infine una curiosità poco nota che lega Luciano Minguzzi alla città di Cento è il concorso per la realizzazione del monumento a Ugo Bassi a cui partecipò negli anni ’50, documentato in mostra dal modellino e dal busto in gesso del patriota, provenienti dalla Galleria d’arte moderna centese.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Luciano Minguzzi, «Il grande urlo», 1985; [fig. 2] Luciano Minguzzi, bozzetto per «Gli uomini del lager», 1957; [fig. 3] Luciano Minguzzi, «Donna sul divano», 1990

Informazioni utili
Rocca di Cento, corso del Guercino - Cento (Ferrara). Orari: venerdì, sabato, domenica e festivi, ore 10.00-13.00 e ore 15.30-19.30. Ingresso libero. Informazioni: tel. 051.6843334 – 390 o informaturismo@comune.cento.fe.it. Sito internet: www.comune.cento.fe.it. Fino al 20 agosto 2017.