ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com
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martedì 9 maggio 2023

Quarantacinque anni dopo: il «caso Moro», la letteratura e «Il dio disarmato» di Pomella

Sul sequestro e sull’assassinio di Aldo Moro (Maglie - Lecce, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978), uomo politico tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, è stato scritto un numero consistente di libri, a partire dalle preziose edizioni critiche delle lettere e del Memoriale che lo statista pugliese, fautore del «compromesso storico» con il Pci di Enrico Berlinguer, redasse nei cinquantacinque giorni della sua prigionia (gli ultimi volumi sono stati pubblicati rispettivamente nel 2008 da Einaudi, per la curatela di Miguel Gotor, e nel 2019 da De Luca editore, con il coordinamento di Michele De Sivo).
 
Consultando l’elenco degli oltre duemila libri e saggi dedicati alla figura del presidente della Dc che lo storico Francesco M. Biscione ha recentemente aggiornato per l’Archivio Flamigni, si nota come siano principalmente due i filoni di trattazione dell’«affaire Moro». Da una parte ci sono i testi che accreditano la versione - mai totalmente accertata - dei brigatisti, usando come fonti informative le circa trecento pagine del corposo Memoriale di Valerio Morucci, consegnato nel marzo 1990 all’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga da suor Teresilla Barillà, e il libro «Il prigioniero» (Feltrinelli, Milano 2003), pubblicato da Anna Laura Braghetti, con la giornalista Paola Tavella, e liberamente ripreso anche da Marco Bellocchio nel film «Buongiorno, notte» (2003). Dall’altro c’è la cosiddetta «saggistica del complotto», che focalizza la propria attenzione su ciò che ancora oggi, dopo cinque processi e varie Commissioni parlamentari d’inchiesta, non torna nelle ricostruzioni ufficiali, a partire dagli errori nelle indagini durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Scolpite nella memoria collettiva sono, per esempio, la farsa del Lago della Duchessa e il giallo di «Gradoli», con la misteriosa seduta spiritica di Romano Prodi. Ma molti sono anche i coni d’ombra dell’inchiesta giudiziaria, in gran parte nutriti dai colpevoli silenzi e dalle falsità dei testimoni diretti o indiretti. Tuttora, per esempio, non si sa chi fossero i due uomini sulla moto Honda presente in via Fani durante l’agguato e chi, il 18 aprile 1978, diffuse il falso comunicato n. 7 sull’avvenuta esecuzione del presidente della Dc.
 
In questa «montagna di carta ingiallita», per usare una suggestiva espressione di Ivan Carozzi sulla rivista «Esquire», ciò che resta dal punto di vista letterario, o meglio ciò che è stato scritto da narratori di professione, è ben poca cosa.
 
Nel settembre 1978, appena quattro mesi dopo il 9 maggio, il giorno del ritrovamento del corpo senza vita dello statista pugliese all’interno di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a Roma (quasi a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista), Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) dava alle stampe, per l’editore palermitano Sellerio, «L’affaire Moro», «una – scrisse Marco Belpoliti, nel 2002 - delle più belle pagine della letteratura italiana degli ultimi trent’anni».
 
Il testo, che nelle ultime edizioni è corredato dalla relazione di minoranza che lo scrittore siciliano firmò, da deputato radicale, al termine della prima Commissione parlamentare di inchiesta, è di difficile catalogazione. In bilico tra il pamphlet di invettiva pubblica e lo studio dei documenti allora a disposizione (il Memoriale dello statista democristiano fu ritrovato solo nel 1990 durante dei lavori di ristrutturazione nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano), «L’affaire Moro» offre uno sguardo profondo e deciso sull’Italia degli anni Settanta e sul lato oscuro della politica nostrana. Ma, soprattutto, racconta - attraverso continui rimandi letterari a Pier Paolo Pasolini, Luigi Pirandello e Jorge Louis Borges, ma non solo - la dimensione più antropica che politica di un prigioniero inerme, privato di ogni forma di autorità, tradito dalla classe politica del tempo, considerato «pazzo» dai suoi stessi «amici» e, secondo un copione che sembrava già scritto nelle ore successive al rapimento, condannato a morte.

La letteratura ha incontrato i cinquantacinque giorni che cambiarono la nostra storia - «la più grande frattura emotiva, politica e sociale» dell’Italia repubblicana - anche in romanzi quali «Il tempo materiale» (minimum fax, Roma 2008) di Giorgio Vasta (Palermo, 1970), «Come imparare a essere niente. Moro, Pasolini, Lady D» (Guanda, Parma 2010) di Alessandro Banda (Bolzano, 1963), l’autobiografico «L’estate del ‘78» (Sellerio, Palermo 2018) di Roberto Alajmo (Palermo, 1959), «La seduta spiritica» (minimum fax, Roma 2021) di Antonio Iovane (Roma, 1974) e il fantascientifico «Ufo 78» (Einaudi, Torino 2022) del collettivo bolognese Wu Ming. La storia di ciò che avvenne in Italia tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 viene ripercorsa anche nel libro «55 giorni» (Il Mulino, Bologna 2018) dello scrittore e drammaturgo Stefano Massini (Firenze, 1975), nel quale si ricostruisce il ritratto di un Paese che, mentre sui giornali abbondano editoriali e articoli sulla follia sanguinaria dei brigatisti, guarda «Portobello» in televisione, va al cinema per «Ecce bombo» di Nanni Moretti, canta con Raffaella Carrà «come è bello far l’amore da Trieste in giù». Vive, seppur con sgomento, i suoi riti quotidiani.
 
Ci sono, poi, in questo elenco anche testi tratti da spettacoli teatrali come «Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa» (Rizzoli, Milano 2003) di Marco Baliani (Verbania, 1950), che rilegge la storia degli anni Settanta attraverso gli occhi di un ragazzo del tempo, e il recente «Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro» (Feltrinelli, Milano 2022) di Fabrizio Gifuni (Roma, 1966).

In questo filone letterario si innesta «Il dio disarmato» (Einaudi, Torino 2022) di Andrea Pomella (Roma, 1973), uno dei tentativi più riusciti dal punto di vista narrativo. Lo scrittore romano focalizza la propria attenzione sui tre minuti che trasformano una tranquilla via del quartiere Trionfale di Roma nel palcoscenico di una storia che ancora oggi interroga la nostra coscienza, quelli tra le 9:02 e le 9:05 del 16 marzo 1978. 

Seguendo la lezione di Javier Cercas in «Anatomia di un istante» (Guanda, Parma 2009), Andrea Pomella riavvolge più volte il nastro, dilata il tempo e racconta il sequestro di Aldo Moro e l’uccisione dei cinque uomini della sua scorta - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti - da più punti di vista. «Il metodo – si legge nella quarta di copertina – «è quello del realismo traumatico, lo stesso che usava Andy Warhol nelle sue immagini seriali: mettere in scena e replicare per sfiorare la verità. Non la verità storica, ma quella più sfuggente della percezione individuale e collettiva». Ci sono così i tre minuti dei testimoni oculari, quelli degli uomini della scorta, quelli dei brigatisti, quelli di Aldo Moro e dei suoi familiari, quelli di Andrea Pomella, quelli di noi che leggiamo.
 
Sequestro di Aldo Moro. Via Fani, Roma. 16 marzo 1978.
Autore: AP Foto. Immagine di dominio pubblico
Grazie alle testimonianze dei familiari dello statista pugliese, lo scrittore romano prova anche a immaginare le otto ore di vita dello statista pugliese prima del sequestro, consegnandoci il ritratto intimo e privato di un uomo che, smessi i panni del politico, si occupa dell’amata moglie Noretta, del nipotino Luca e dei figli Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni. Prega e legge. Pensa e ricorda. Fa colazione e si sbarba. Medita sul destino, suo e degli altri, animato da una sorta di inquietudine che ha del profetico. In quelle otto ore Aldo Moro è «Il dio disarmato», non il politico noto per «l’abilità del tessitore e il talento dell’equilibrista», ma l’uomo privato che «depone i fardelli della forza e del potere per godere pienamente della propria disadorna umanità», perché – scrive ancora Andrea Pomella – per lo statista pugliese «la famiglia è da sempre il luogo in cui può lasciar scorrere le proprie angosce, l’indecisione, le sue piccole manie» (p. 118). Fuori da quelle mura domestiche c’è un nuovo Governo a cui votare la fiducia, il primo monocolore democristiano con l’appoggio esterno del Partito comunista. Fuori da quelle mura, sulla strada verso Montecitorio, Aldo Moro conosce la solitudine del potere e un «vento d’acciaio»: centoottanta secondi di «stridio di gomme sull’asfalto», «proiettili che fendono l’aria», violenza, sangue, paura e, infine, un silenzio irreale. «Siamo appena all’inizio – scrive Andrea Pomella (p. 198) – ed è già la fine». 

Bibliografia essenziale
Giovanni Bianconi, «16 marzo 1978», Economica Laterza, Roma 2021
Filippo Bona, «Gli eroi di Via Fani. I cinque agenti della scorta di Aldo Moro», Longanesi, Milano 2018
Agnese Moro, «Un uomo così. Ricordando mio padre», Rizzoli, Milano 2003
Luca Moro, «Mio nonno Aldo Moro», Ponte Sisto, Roma 2016
Maria Fida Moro, «In viaggio con mio papà»,Rizzoli, Milano 1985
Maria Fida Moro, «La casa dei cento natali», prefazione di Leonardo Sciascia, Rizzoli, Milano 1982

giovedì 6 aprile 2023

Tra arte e letteratura, Elisabetta Rasy racconta Etty Hillesum

«Una cosa, tuttavia, è certa: si deve contribuire ad aumentare la scorta di amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all'odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile». Con il suo Diario e le sue Lettere, pubblicate in Italia da Adelphi dopo la prima metà degli anni Ottanta, Etty Hillesum, ebrea olandese scomparsa poco prima di compiere trent’anni nel campo di sterminio di Auschwitz, ha illuminato una delle pagine più buie della storia del Novecento – la Shoah -, diventando «un simbolo della Resistenza spirituale di fronte al Male».
La figura di questa giovane donna, alla tenace ricerca di Dio e alla costante scoperta del senso dell’esistenza umana, è al centro del nuovo libro, pubblicato nel gennaio di quest’anno, dalla giornalista e scrittrice Elisabetta Rasy: «Dio ci vuole felici – Etty Hillesum o della giovinezza».

Il volume, che inaugura la collana «Scrittrici /Scrittori» di HarperCollins, in cui narratori dei nostri giorni dialogano con l’opera e la vita di autori del passato, non è una biografia, ma il racconto di un incontro singolare, quello con le pagine di un libro che si imprimono in maniera indelebile dentro di noi, dando forma - scrive la stessa Elisabetta Rasy – ai nostri «pensieri non pensati, quelli che stanno acquattati in fondo all’anima senza riuscire a venire fuori». Etty Hillesum diventa così per la giornalista e scrittrice romana, premio Campiello nel 1997 con «Posillipo» e firma dell’inserto domenicale del quotidiano «Il Sole 24Ore», «una perfetta maestra della giovinezza», «una di quelle amiche» con cui, durante l’adolescenza, «si passano ore e ore a parlare in una comunione di sentimenti – vera o illusoria non importa – che nell’età adulta difficilmente ritorna».

Pagina dopo pagina, la storia di Etty Hillesum si intreccia con quella di Elisabetta Rasy da giovane, delineandone anche la sua passione per il mondo dei libri, in un gioco di rimandi e rispecchiamenti, riflessioni e ricordi, che ci fa incontrare molti altri personaggi del Novecento, alcuni dei quali - come Anna Frank, Primo Levi, Edith Stein e Simone Weil - sono finiti nel labirinto infernale della follia nazista.
Nel libro si "parla", poi, anche degli amori difficili di Katherine Mansfield e Edith Wharton, della scrittura diaristica di Virginia Woolf e Margherite Duras, di un personaggio di fantasia come la Micol Finzi-Contini di Giorgio Bassani e della pittrice berlinese Charlotte Salomon, altro talento perduto nella Shoah, che ci ha lasciato «Vita? o Teatro?», «un grande libro di parole e più di mille disegni a tempera in cui racconta la sua giovinezza e l’epoca feroce in cui l’ha vissuta».

Elisabetta Rasy, laureata in Storia dell’arte alla Sapienza di Roma, ci regala, inoltre, in queste pagine altri riferimenti al mondo dei colori e della creatività, raccontando brevemente al lettore le storie del pittore olandese Gabriël Metsu (1629–1667), noto per le sue immagini di interni domestici con figure femminili, e del maestro Gustave Courbet (1819 - 1877), che ha dato forma alla realtà che aveva davanti ai suoi occhi e ha firmato un dipinto controverso come «L’origine del mondo». Intense sono, poi, le due pagine dedicate al progetto «Archivi del cuore», un’immensa collezione di battiti cardiaci raccolta dal francese Christian Boltanski, padre di una ricerca artistica che ha saputo interpretare e raccontare in maniera viva e pulsante il tema della memoria e del trascorrere del tempo inteso come ineluttabile passaggio tra la vita e la morte, ricostruendo, con un linguaggio al contempo potente e delicato, tracce di vita per fugare il timore dell’oblio.

Il Diario di Etty Hillesum, che va dal marzo 1941 all’ottobre 1942, e le Lettere, inviate da Amsterdam e dal campo di transito di Westerbork tra l’agosto 1941 e il 7 settembre 1943, diventano, dunque, un espediente letterario per dare voce a quei molti «frammenti di un discorso pronunciato per iscritto tanti anni prima, o in un posto lontano da noi», che «illuminano come un faro» la nostra vita, dando voce a ciò che di noi stessi non conosciamo. «Frammenti», brani letterari, diversi per ognuno di noi e per ogni stagione della nostra vita, ma sempre preziosi e suggestivi, da fissare come una bussola sul nostro taccuino. La storia di questa «ragazza dai capelli e dall’anima arruffata», che voleva essere «il cuore pulsante della baracca», emerge comunque con intensità da ogni pagina.

Prima della decisione che le cambierà per sempre la vita – «Voglio seguire il destino del mio popolo» -, Etty Hillesum è una giovane donna alle prese con gli studi in Giurisprudenza e in Lingue slave, i rapporti non idilliaci con la famiglia, il desiderio di emancipazione o meglio di «un modo diverso di stare al mondo», la lettura di autori amati come Rainer Maria Rilke, Sant’Agostino, Fëdor Dostoevskij, Aleksandr Sergeevič Puškin, Lev Tolstòj, Thomas Mann, ma anche della Bibbia e del Vangelo di Matteo. Corre, libera, in bicicletta per le strade di Amsterdam con il vento che le soffia tra i capelli. Va in «locali pieni di fumo e discussioni» a divertirsi con gli amici e ad ascoltare la musica di Franz Schubert. Sperimenta «i complicati arabeschi dell’amore», che la vedono avere una tormentata relazione con lo psicologo e chiromante Julius Spier, morto poco prima che la scure della Storia si abbattesse anche su di lui.

Etty Hillesum è, dunque, una ragazza che respira a pieni polmoni la vita ed è proprio per questo motivo che non può soccombere all’orrore nazista. «Odiare non è nel mio carattere», «l'odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia», «Se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quell'unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe diritto di riversare il proprio odio si un popolo intero» scrive, nel suo Diario, con tutta la fermezza che le circostanze impongono. «Mentre – racconta Elisabetta Rasy con uno stile in bilico tra il romanzo e il saggio - tutto va in pezzi e lo spazio vitale si restringe come in un cubicoli strozzato - per gli ebrei neanche più le panchine per sostare un minuto: proibite; neanche i giardini o i boschi per respirare: proibiti; neanche i tram per spostarsi da una strada all'altra: proibiti» -, Etty Hillesum ne è sempre più convinta: «l'odio è una malattia dell'anima». Ecco, dunque, che la giovane olandese trova la strada per essere «fedele al suo sentire, al suo stile umano»: «non la fuga, non l’odio, ma l’amicizia, l’amore, la preghiera», un colloquio intimo, profondo e diretto con Dio. Un Dio che ha bisogno dell’uomo, delle sue azioni giuste e piene di coraggio, per incarnarsi nella storia. Ne è pienamente convinta Etty Hillesum quando nel suo Diario scrive, imprevedibilmente e indimenticabilmente: «Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa. […] Cercherò di aiutarTi affinché Tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio».

Vedi anche

Informazioni utili
Elisabetta Rasy, «Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza», HarperCollins Italia, Milano 2023. In commercio dal: 17 gennaio 2023. Pagine: 160 pp., rilegato. EAN: 9791259851376

venerdì 17 dicembre 2021

Rinasce la rivista d’arte FMR, «la perla nera dell’editoria mondiale»

Era il 1982 quando Franco Maria Ricci presentava il primo numero di una rivista destinata a diventare «la perla nera dell’editoria mondiale»: «FMR». Quella pubblicazione, che voleva «mostrare l’arte come non era mai stata mostrata», si affermò sul mercato per «l’originalità delle scelte, l’eleganza della veste, la qualità dei testi», lasciando orfani i suoi tanti collezionisti quando nei primi anni Duemila, dopo 163 numeri e con il passaggio del marchio alla società «Art’è» di Marilena Ferrari, cessava le uscite.
Il prossimo solstizio di inverno, «FMR» rinasce, rendendo concreto un sogno dello stesso Franco Maria Ricci che, dopo la costruzione del Labirinto del Masone e sino alla fine dei suoi giorni, aveva cercato di riacquisire la proprietà della rivista. Nell’intento sono riusciti, alla fine del 2020, i suoi eredi e in questi giorni è in pubblicazione il «Numero Zero», un regalo di Natale per chi, sottoscrivendo un abbonamento annuale, voglia lasciar sedurre il suo sguardo e la sua mente dalle immagini e dai testi che impreziosiranno i quattro numeri in uscita nel 2022.
A rendere possibile tutto questo è una nuova redazione, guidata da Laura Casalis e dal direttore Edoardo Pepino, che vanta un pétit comité di consiglieri composto da Giorgio Antei, Massimo Listri, Giovanni Mariotti, Gabriele Reina e Stefano Salis. È già, inoltre, lunga la lista di stimati studiosi e scrittori che hanno salutato con gioia la rinascita della rivista e che doneranno ai lettori la loro competenza e penna in questo numero e nei prossimi in programma. Héctor Abad Faciolince, Pietro Citati, Orhan Pamuk, Christian Beaufort- Spontin, Jean Blanchaert, Gian Carlo Calza, David Ekserdjian, Sylvia Ferino, Caterina Napoleone, Pierre Rosenberg, Vittorio Sgarbi, Edward Sullivan e Óscar Tusquets Blanca sono alcuni di questi.
Tutto è già pronto. La pubblicazione che dà nuova linfa all’avventura di «FMR», ritornando a offrire ai lettori «una scuola per lo sguardo», è stampata da Grafiche Milani, una delle tipografie storiche del capoluogo lombardo, a cinque colori su carta, rilegata in brossura, con formato 23 x 30 centimetri, 132 pagine stampate a colori, carta Tatami Fedrigoni 170 gr/m2 per le pagine interne, carta Tatami Fedrigoni da 300 gr/m2 plastificata con film lucido per la copertina.
Il sipario si sta, dunque, aprendo. Lo spettacolo sta per iniziare . «Abbiamo accordato gli strumenti – scrive Laura Casalis, moglie di Franco Maria Ricci, mutuando il linguaggio dal mondo del teatro e della musica - e siamo pronti ad andare in scena, siamo già all’«Ouverture»: ecco il Numero Zero con cui torna «FMR», la rivista d’arte che ha stregato il mondo e che resta senza uguali». Viene già da applaudire solo per questo, per poter riprendere tra le mani un sogno fatto di carta, con i colori che risaltano dal fondo nero, come in teatro quando si fa il buio in sala, e i caratteri Bodoni che parlano il linguaggio dell’eleganza, quella di chi sa che la semplicità e l’attenzione al dettaglio sono la carta vincente.
«FMR» sarà pubblicata in due edizioni, italiana e inglese, e sarà un «dono di stagione», perché uscirà quattro volte all’anno. Gli argomenti saranno gli stessi che hanno caratterizzato il passato, glorioso e mitologico, della rivista: storia dell’arte, design, architettura, e in generale argomenti «ove ogni sorpresa, ogni avventura dell’occhio si trasforma in uno stimolo per la fantasia e per la mente».
La nuova pubblicazione si apre e si chiude con due rubriche: «Hors d'oeuvre» e «Mignardises», «degli antipasti – si legge nella nota stampa - per stuzzicare l’appetito e delle delizie per terminare il pasto con qualcosa di dolce». Le prime pagine del «Numero Zero», «un fuori serie», sono, poi, occupate da uno scritto inedito di Franco Maria Ricci per la rubrica «Quattro venti», nel quale è raccontato l’ultimo viaggio dell’intellettuale emiliano in Portogallo e la sua visita al Monastero dos Jerónimos.
Per la rubrica «Congetture», Bruno Zanardi ci porta, invece, alla scoperta di un insolito ritratto di Dante Alighieri che nasconde dietro la cornice, un misterioso foglietto con il nome Degas. In chiusura ci sono le rubriche «Aste», a cura di Massimo Navoni, e «Biblioteca», a firma di Carlo della Grivola, nel quale è presentata una recensione del volume «La Chine en Miniature» della Franco Maria Ricci Editore, un ritratto della Cina del XVIII secolo curioso ed eclettico, oltre che incredibilmente dettagliato, con quasi duecento affascinanti illustrazioni.
Mentre gli articoli di questo numero da collezione sono cinque. Ne «L’amore lungo di Alex e Rhoda», Giovanni Mariotti ha scelto tredici tele del pittore canadese Alex Colville che tracciano uno straordinario racconto d’amore durato settant’anni. Gian Carlo Calza firma, invece, «Tagasode ‘Di chi quelle vesti?’», la domanda senza risposta che un poeta formulò alle origini della letteratura giapponese e che secoli più tardi ispirò artigiani geniali nella creazione dei paraventi, manufatti trasognati che toccano con estrema delicatezza la corda dell’Eros. Mentre «Il sorriso Totonaca» di Giorgio Antei rivela come dagli scavi nella regione di Veracruz, sulle alture del sud del Messico, nonostante l’aridità del paesaggio, è venuta alla luce una gaiezza mai vista: a tutte le figure emerse un misterioso sorriso o un’aperta risata illumina il volto. 
Ne «Il vangelo secondo Gaudenzio», Vittorio Sgarbi svela, quindi, le meraviglie che si celano dietro la severità delle chiese francescane, come il santuario della Madonna delle Grazie a Varallo, dove Gaudenzio Ferrari ci ha lasciato una versione rinascimentale della «Biblia Pauperum» di sfolgorante bellezza. Infine, il pezzo a quattro mani «Arcs de cel» vede Pablo Bofill e Nicolas Véron raccontare lo scultore e architetto Xavier Corberó, protagonista di una stagione artistica che ha elevato la Catalogna a capitale della modernità.
«La rivista più bella del mondo» è, dunque, pronta a ritornare sul mercato. Nell’epoca delle pubblicazioni digitali, la carta, con il suo frusciante e persistente fascino, vince ancora una volta. Sarà bello, di stagione in stagione, sedersi in poltrona sul fare della sera, alla luce di una lampada, per sfogliare e leggere un gioiello fatto di parole e immagini, un libro-rivista da conservare, come tutti gli oggetti preziosi, in un elegante astuccio da collezione.

sabato 4 dicembre 2021

Dalla monografia di TvBoy al volume su Bergamo di FMR, novità in libreria

FRANCO MARIA RICCI DEDICA UN VOLUME A BERGAMO
Bergamo, insieme a Brescia, sarà Capitale italiana della cultura 2023. L'importante riconoscimento è arrivato, subito dopo i giorni più bui della pandemia, per incarnare la fiducia verso il futuro. Per celebrare la speciale occasione, la Franco Maria Ricci Editore ha deciso di raccontare l'unicità della città e dei suoi monumenti in un volume, che verrà presentato al pubblico il 14 dicembre, alle ore 18, nelle sale di Palazzo Moroni.
Dalla casa editrice emiliana raccontano così la peculiarità del centro lombardo: «mentre altre città italiane sono state per una parte della loro storia capitali di territori più o meno vasti, e ospitarono una corte, il caso di Bergamo è diverso: nel 1428 la città passò sotto il dominio di Venezia e vi restò, abbastanza quietamente, sino all’epoca napoleonica. Le capitali tendono a eliminare ogni traccia della rusticità originaria; Bergamo l’ha elaborata e raffinata, crescendo, senza ripudiarla, incarnando squisitamente, anche nella modernità, il sentimento dei borghi antichi». Queste vicende sono al centro del testo che il musicologo Giovanni Gavazzeni ha scritto per il volume di FMR, nel quale viene raccontato come il dialetto e la musica si siano fusi nella città in un’unica, armoniosa melodia.
Lo scritto dello storico dell’arte Simone Facchinetti svela, invece, le meraviglie artistiche di Bergamo e del territorio circostante, in un itinerario che, partendo dai maestri veneti Bellini e Lotto, tocca i «pittori della realtà» Moroni e Ghislandi (Fra’ Galgario) e approda all’originalissimo Bonomini, muovendosi tra i capolavori dell’Accademia Carrara e le gemme nascoste nelle chiese della città e nelle valli vicine.
In chiusura, il testo di Stefan Krause racconta la rocambolesca vita di Bartolomeo Colleoni, condottiero e capitano di ventura, figura cruciale nel Rinascimento bergamasco.
A fianco delle parole scorrono le immagini dei più bei luoghi di Bergamo ritratti dal fotografo Massimo Listri. Dalla Basilica di Santa Maria Maggiore ai palazzi Terzi e Moroni, che dischiudono sfarzi e affreschi, alla Cappella Colleoni, le fotografie restituiscono al lettore l’impressione di una città colta, viva, che si specchia nella sua storia senza narcisismi.
Il volume, stampato nei consueti tipi bodoniani e pubblicato con il supporto di Crédit Agricole Italia, è, dunque, un omaggio e un incoraggiamento a una città di sorprendente forza e bellezza, che riprende oggi in mano il suo destino.
Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito https://www.francomariaricci.com/it.

«LE TUE LETTERE SONO UN GRANDE CONFRONTO PER NOI…», A LUGANO UN INCONTRO SULL’EPISTOLARIO DI SOPHIE TAEUBER-ARP

Il 2021 è stato l'anno della riscoperta, a livello internazionale, di Sophie Taeuber-Arp (Davos, 19 gennaio 1889 – Zurigo, 13 gennaio 1943), esponente della corrente Dada, nonché pioniera dell’astrazione, il cui volto è stato per diversi anni sulla banconota da 50 franchi.
Il lavoro dell’artista svizzera, conosciuta anche per essere stata la moglie di Jean/Hans Arp, è stato omaggiato nell’anno in corso da tre grandi retrospettive al Kunstmuseum di Basilea, alla Tate Modern di Londra e al Moma di New York.
Nel 2021 la Fondazione Marguerite Arp di Locarno ha anche curato la pubblicazione del volume «Lettere di Sophie Taeuber-Arp a Annie e Oskar Müller-Widmann», co-pubblicato dalle Edizioni Casagrande di Bellinzona (nella versione in lingua italiana) e dalla Scheidegger & Spiess di Zurigo (in tedesco e in inglese), che raccoglie, e rende per la prima volta pubbliche, le lettere e le cartoline scritte dall’artista ai suoi collezionisti.
Tutte le cartoline illustrate e alcune lettere sono riprodotte in facsimile. Le trentacinque missive inviate tra il 1932 e il 1942 sono introdotte da un saggio di Walburga Krupp e da una prefazione di Simona Martinoli. Arricchiscono il volume un indice dei nomi, fotografie d’archivio in parte inedite e riproduzioni di opere citate nelle lettere.
Il libro verrà presentato sabato 4 dicembre, alle ore 11, al Lac di Lugano, alla presenza di Tobia Bezzola, direttore del Masi di Lugano, Walburga Krupp, autrice e co-curatrice della mostra «Sophie Taeuber-Arp: Living Abstraction», Simona Martinoli, direttrice della Fondazione Marguerite Arp, e della giornalista Cristina Foglia.
L’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili. Per accedere all’evento è richiesto, per i maggiori di 16 anni, il certificato Covid e vige l’obbligo di indossare la mascherina. È consigliata la prenotazione su www.edu.luganolac.ch.

24 ORE CULTURA PUBBLICA LA PRIMA MONOGRAFIA DELLO STREET ARTIST TVBOY
Elton John
, Raffaella Carrà, Jean-Michel Basquiat, Donald Trump e la regina Elisabetta: sono queste alcune delle icone contemporanee finite sotto l’occhio critico e ironico dello street artist TvBoy, pseudonimo di Salvatore Benintende. Dal 2 dicembre sarà in libreria la prima monografia ufficiale dell’artista (cartonato 21 x 26 cm, 144 pagine con 100 illustrazioni, € 34,00, codice Isbn: 978-88-6648-534-6), da anni residente a Barcellona, le cui opere sono autentiche satire ispirate alle più accese tematiche dell’attualità politica e sociale. A pubblicare il libro, a cura di Nicolas Ballario e con un contributo di Oliviero Toscani, è 24 Ore Cultura.
Realizzato in stretta collaborazione con l’artista, il volume, corredato da saggi critici che inquadrano il suo ruolo all’interno della scena artistica contemporanea, ne ripercorre l’intera carriera: dagli esordi con la sua firma stilizzata – un bambino con la faccia incastrata nel televisore – passando per i primi murales caratterizzati dalla tecnica dei graffiti e dello stencil fino alle opere più recenti dedicate dalla pandemia di Covid-19 e alle elezioni americane.
Con oltre settanta opere, il libro è suddiviso in capitoli dedicati alle principali tematiche trattate da TvBoy. Il primo capitolo è dedicato ai baci, opere che hanno reso famoso l’artista nel mondo e che rappresentano per lui il gesto più intimo e romantico, ma anche il dialogo per eccellenza, ovviamente nell’accezione ironica che caratterizza i suoi lavori. Si prosegue, poi, con il tema del potere, dove i più potenti del mondo sono rappresentati secondo la visione talvolta celebrativa, talvolta critica, di TvBoy. Si passa, quindi, agli eroi personali dell’artista, che hanno lasciato un segno duraturo nell’ambito dell’impegno civile, della cultura, della musica, dello spettacolo, dello sport e del costume. Il volume si chiude, infine, con il capitolo dedicato alle icone dell’arte, i punti di riferimento che l’artista vuole celebrare con lo scopo di avvicinare sempre più il pubblico all’arte, abbattendo quell’aura di sacralità che caratterizza spesso i grandi capolavori.
Per maggiori informazioni è possibile consultare la pagina www.24orecultura.com.

5 CONTINENTS EDITIONS PUBBLICA LA PRIMA MONOGRAFIA DEL FOTOGRAFO SENEGALESE OMAR VICTOR DIOP
È il continente africano, fra storia e attualità, il protagonista della monografia (cartonato, 23 x 31 cm, 96 pp. e 41 illustrazioni a colori, codice ISBN: 978-88-7439-993-2, € 39,00) dedicata al fotografo senegalese Omar Victor Diop (Dakar, 1980), appena pubblicata da 5 Continents Editions in coedizione con la galleria parigina Magnin-a
Consacrato dalla recente edizione di Paris Photo e dal Photo Vogue Festival di Milano, l’artista affonda la propria ricerca fotografica nel suo vissuto personale. Guarda cioè alla tradizione africana della posa in studio - a partire dalle immagini di Seydou Keïta, Mama Casset e Malick Sidibé – e racconta una visione alternativa della storia del suo continente, nella quale viene dato risalto a figure e personaggi trascurati dalla narrazione occidentale.
Il libro – bilingue francese / inglese – ospita tre serie fotografiche, emblematiche dell’evoluzione del percorso artistico di Omar Victor Diop, commentate dai testi di Renée Mussai, Imani Perry e Marvin Adoul.
In «Diaspora» (2014), Diop sceglie l’arte dell’autoritratto. Il fotografo incarna nelle sue immagini diciotto personalità della diaspora africana dai destini straordinari, ma dimenticate dalla storia dell’Occidente. Vivacizzando le foto con oggetti legati al mondo del calcio ne smorza la carica drammatica e catapulta i suoi personaggi storici nel presente, inserendoli di fatto nel dibattito sull’immigrazione e l’integrazione degli stranieri nella società europea.
Con «Liberty» (2017), l’artista propone una lettura universale della storia del suo popolo alla ricerca della libertà. Giocando su riferimenti visivi e mescolando autoritratti e rappresentazioni, analizza gli avvenimenti salienti di questa complessa vicenda, certamente diversi per epoca, luoghi e importanza.
«Allegoria» (2021), serie presentata di recente a Paris Photo, inaugura, invece, un nuovo capitolo del lavoro di Diop, teso a raccontare l’ambiente e l’importanza della natura nel continente africano.
Per maggiori informazioni è possibile consultare la pagina www.fivecontinentseditions.com.

«TEMPLES», IN UN LIBRO LA SARDEGNA DI GIANCARLO PRADELLI
È una Sardegna poco nota ai più quella che viene raccontata dal libro fotografico «Temples»Z (cartonato, 30 x 24 cm, 96 pp. e 40 illustrazioni in tricromia, € 30,00, codice ISBN 979-12-5460-000-9), appena uscito in libreria grazie alla 5 Continents Editions, con una prefazione di Elisabetta Bazzani.
Attraverso quaranta scatti fotografici in bianco e nero di Giancarlo Pradelli, il volume mostra le aree rurali e campestri della regione, lontane dal mare e popolate da resistenti edifici antichi, testimoni dello scorrere del tempo e, insieme, del suo potere corrosivo.
Nell’isola chiamata dai greci Ichnusa, fra cardi selvatici, macchie di lentisco e di elicriso dall’intenso profumo, in paesaggi assolati e battuti dal vento, si trovano chiese, monasteri e pievi di antica costruzione perlopiù caduti in disuso.
Sono edifici battezzati con i nomi di santi, un tempo parte di un tessuto urbano oggi vuoto di uomini, accomunati dalla posizione solitaria che ne aumenta il fascino paesistico: veri e propri miracoli di pietra, di rara bellezza, simboli di una sacralità intrinseca del territorio.
Lo sguardo di Giancarlo Pradelli non si sofferma solo su edifici prestigiosi, frutto delle storiche infiltrazioni culturali nell’isola, ma predilige modeste costruzioni di stili diversi e rustiche chiese campestri, di matrice pastorale, realizzate da maestranze locali per resistere alla forza del vento e al clima mediterraneo.
Spesso ridotti alla condizione di muri crollati per il potere corrosivo del tempo, questi relitti, ormai vago ricordo delle originarie architetture, hanno assunto una nuova forma, destinata inesorabilmente a ulteriori silenti mutazioni.
Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.fivecontinentseditions.com.

venerdì 3 dicembre 2021

Da 24 Ore Cultura e Libri Scheiwiller tre libri su Piet Mondrian

È appena uscito in libreria «Piet Mondrian. Dalla figurazione all’astrazione», catalogo della mostra in programma fino al prossimo 27 marzo al Mudec – Museo delle culture di Milano. A editare il volume - a cura di Benno Tempel, storico dell’arte e direttore del Kunstmuseum dell’Aja - è 24 Ore Cultura. Il libro è un invito a conoscere un «altro» Mondrian e a riscoprirne i capolavori, attraverso un’originale chiave di lettura della sua poetica e del processo evolutivo della sua arte, anche grazie al confronto con altri artisti che hanno condiviso con lui il fermento creativo dell’epoca.
Protagonisti del primo capitolo sono i membri della Scuola dell’Aja, un gruppo di pittori che operarono tra il 1860 e il 1890 e che rivoluzionarono la pittura olandese, rifiutando le raffigurazioni idealizzate dell’epoca romantica a favore di un approccio più realistico. Le loro opere, caratterizzate dalla sobrietà nell’uso dei colori e da una decisa predilezione per il grigio, hanno creato l’immagine archetipica del paesaggio olandese conosciuta in tutto il mondo.
Il catalogo prosegue analizzando l’opera di Mondrian prima e dopo il 1908. I primi lavori dell’artista, influenzati in parte dalla Scuola dell’Aja e in parte dalla sua formazione artistica tradizionale alla Rijksakademie van Beeldende Kunsten, sono principalmente paesaggi realizzati con un pennello largo e molte sfumature di ocra e di grigio. A partire dal 1900 il pittore abbandona progressivamente la rappresentazione fedele della natura per sperimentare forme e colori. Utilizzando mulini a vento, fossi, fiori e altri motivi, Mondrian esplora la possibilità di ridurre il mondo che lo circondava alla sua essenza assoluta. Abbandonata la logica della prospettiva, che aveva caratterizzato l’arte europea dal Rinascimento in poi, il pittore inizia a dedicarsi alle forme astratte. Con l’utilizzo delle linee perpendicolari, l’artista olandese rende via via più radicale il proprio minimalismo fino a far nettamente prevalere, nell’ultima fase della sua carriera, le linee sui colori.
Particolare attenzione viene, inoltre, dedicata a De Stijl, il movimento sorto nei Paesi Bassi nel 1917 su iniziativa dello stesso Mondrian e di Theo van Doesburg, attivo ancora alle soglie degli anni Trenta. Mentre, a chiusura del catalogo, è pubblicato un focus sull’influenza che il Mondrian della fase neoplastica ha avuto sul mondo del design: dall’arredo alla grafica, dall’interior all’exhibition design, fino ad arrivare addirittura alla moda, con la collezione-tributo di Yves Saint Laurent del 1965.
In occasione della mostra al Mudec, 24 Ore Cultura pubblica anche il libro «Piet Mondrian. Una vita per l’arte», a cura di Elena Pontiggia. Il volume ripercorre le fasi stilistiche dell’artista olandese dagli esordi come pittore figurativo fino all’astrazione, intesa non solo come tecnica pittorica, ma anche e soprattutto come concezione filosofica, ispirata alla teosofia e proiettata verso un futuro utopico.
Grande innovatore dell’arte moderna, Mondrian comincia nel 1920 a utilizzare rigorosamente griglie di righe nere definenti piani di colore puro, alla ricerca di un equilibrio asimmetrico-astratto. Nel 1940 si trasferisce a New York e i suoi studi evolvono: l’artista sostituisce la riga nera con fasce composte da piccoli rettangoli di colore, conferendo un ritmo sempre più dinamico ai suoi lavori.
Elena Pontiggia è autrice anche di un saggio contenuto nel volume «Scritti teorici. Il neoplasticismo e una nuova immagini della società», un altro volume pubblicato in occasione della mostra milanese da Libri Scheiwiller. Il libro, che contiene anche un’intervista al pittore ad opera di James Johnson Sweeney, raccoglie gli scritti più importanti e rivelatori dell'artista pubblicati tra il 1917 e i primi anni Venti. È nell’ottobre 1917 che Mondrian pubblica, sulla rivista «De Stijl», il primo articolo in cui definisce la sua visione del mondo e dell’arte, chiarendo gli ideali della tendenza da lui stesso fondata: il neoplasticismo. Lo scopo della vita e della nuova pittura, scrive, è abolire il tragico. Una trentina di anni prima, un altro artista olandese, Vincent van Gogh, aveva portato il tragico nel cuore dell’arte moderna; ora, quasi come un contrappasso, Mondrian aspira a un’arte libera dal dolore. E per farlo crea un linguaggio basato unicamente sulla geometria e sulle linee rette, che si stacca dalla natura e dall’io e coglie le strutture dell’essere. Per il padre del neoplasticismo il quadro è il luogo perfetto in cui i dualismi originari dell’essere sono ricondotti all’unità, conciliando l’io con l’universale e la natura con lo spirito. Nel suo percorso verso l’essenziale, l’arte di Mondrian, che il pittore cercò di teorizzare in numerosi scritti, è anche una ricerca filosofica dell’assoluto attraverso la composizione degli opposti.
In questi ultimi giorni del 2021 chi va in libreria ha, dunque, occasione di trovare tre volumi che estendono e approfondiscono lo studio di uno degli artisti più rivoluzionari del Novecento, «il pittore della griglia nera e dei rettangoli colorati» che cercava l’assoluto attraverso la composizione degli opposti.

Informazioni utili
«Piet Mondrian. Dalla figurazione all’astrazione». Editore: 24 ORE Cultura. A cura di: Benno Tempel. Formato: cartonato 23 x 28 cm. Pagine: 142 pagine con 160 illustrazioni. Prezzo: € 32,00. Codice ISBN: 978-88-6648-578-0. In vendita in libreria e on-line
 
«Piet Mondrian. Una vita per l’arte». Editore: 24 ORE Cultura. A cura di: Elena Pontiggia. Formato: brossura 20 x 28 cm. Pagine: 64 pp. con 50 illustrazioni. Prezzo: € 12,90. Codice ISBN: 978-88-6648-576-6. In vendita in libreria e on-line

«Scritti teorici. Il neoplasticismo e una nuova immagini della società». Editore: Libri Scheiwiller. A cura di: Elena Pontiggia. Formato: brossura con alette 13 x 20 cm. Pagine: 144 pp..Prezzo: € 18,90. Codice ISBN: 978-88-7644-686-3. In vendita in libreria e on-line

mercoledì 1 dicembre 2021

Torna in libreria «Milano Moderna» di Fulvio Irace

Ritorna in libreria, in una versione aggiornata, il volume «Milano Moderna» di Fulvio Irace, storica e ormai introvabile pubblicazione uscita in libreria nel 1996 per i tipi Federico Motta Editore. A ripubblicare il volume, che allarga ora la pionieristica ricerca sull’architettura della ricostruzione nel capoluogo lombardo del secondo dopoguerra alla nuova città di inizio millennio, è 24 Ore Cultura, che per l'occasione ha organizzato una presentazione al pubblico per la serata di giovedì 2 dicembre, alle ore 18:30, alla Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, alla quale prenderanno parte, con l’autore, l’architetto Mario Botta e il giornalista Giangiacomo Schiavi.
Pubblicato originariamente grazie al decisivo contributo di Enrico Baleri che ne condivise l’entusiasmo e l’impianto, «Milano Moderna» voleva essere un omaggio alla forza del capoluogo lombardo, alla sua capacità di proporsi, nelle contingenze più difficili del suo sviluppo, come laboratorio di una cultura non convenzionale, pragmatica e anti-ideologica, che si apprezza sia nell’efficacia dei singoli edifici che nel carattere di una diffusa e colta coralità. Il successo del libro si può misurare dalla risposta degli studiosi e dall’interesse dei lettori, che in breve tempo videro esaurita la prima edizione, rendendolo inaccessibile sul mercato.
24 Ore Cultura ha deciso così di ripubblicare il volume in una versione rivista e allargata a comprendere l’intera portata delle trasformazioni che hanno caratterizzato il costruirsi di una nuova città negli ultimi due decenni. Appariva chiaro allora, infatti, ed è apparso ancora più evidente oggi, che il tema principale del libro sta nella definizione dei mutevoli concetti dell’idea stessa di modernità, un contributo – come afferma Fulvio Irace - «alla capacità della metropoli lombarda di proporsi come laboratorio di una cultura non convenzionale del cambiamento».
L’ossessione di «essere assolutamente moderni» è, infatti, il motore che caratterizza Milano già all’indomani dell’Unità d’Italia, a partire dalla costruzione della sua celebre Galleria, che rimise in moto il cuore di piazza Duomo e avviò la profonda ristrutturazione del centro. Nel 1881 l’Esposizione nazionale ne consacrò il ruolo di capitale industriale, così come l’Expo del 2015 ne ha rilanciato il carisma di città mondo.
«Non perdono tempo questi birboni – scriveva Emilio De Marchi nel romanzo «Demetrio Pianelli» – non hanno ancora il gas che già vogliono la luce elettrica; non hanno ancora finito una casa che già la buttano giù per farne una più grande e più bella»: era il lontano 1890, ma questa definizione sembra attagliarsi alla perfezione anche alla Milano di oggi, con il glamour delle sue nuove architetture e l’esuberanza delle sue nuove torri.
Quando fu semidistrutta dai bombardamenti del 1943, la città non tardò a sollevarsi dalle ceneri di guerre, pensando in grande a quella ricostruzione che doveva avere i caratteri quasi di una nuova costruzione: il vento della modernità era di nuovo cambiato e al posto della Milano di pietra del ventennio, cominciò a delinearsi un nuovo panorama di edifici leggeri e trasparenti. Era la modernità dei «costumi semplificati» auspicata da Gio Ponti: il preludio di una vita all’insegna della velocità, ma anche vetrina che mostrava al mondo la sorpresa di una città che si era completamente reinventata. Dopo il declino del ciclo industriale e la chiusura della cintura di fabbriche che ne avevano fatto la ricchezza, Milano ha dovuto confrontarsi ancora una volta con una serie di traumatici cambiamenti, da cui è uscita però rinnovata e pronta a competere nella sfida delle capitali del XXI secolo.
All’interno del volume l’analisi storica e il racconto delle trasformazioni urbane in tre quarti di secolo si svolge secondo un doppio piano di lettura, testuale e visivo. I testi firmati da Fulvio Irace, uno dei più autorevoli critici e studiosi italiani di architettura, docente al Politecnico di Milano, sono accompagnati da un ricco atlante visivo con immagini di grande formato, affidato per la parte moderna alle fotografie di storici maestri come Gabriele Basilico e Paolo Rosselli e per quella contemporanea all’occhio di «paesaggisti» della nuova generazione come Marco Introini, Filippo Romano e Giovanna Silva.
Suddiviso in sette capitoli il libro racconta il bisogno di Milano di ricostruire, ma ancora di più di costruire una nuova maniera di abitare, partendo dall’operato di Luigi Moretti e l’exploit di Corso Italia, passando per l’invenzione del condominio milanese come simbolo di ordine e modernità con i progetti architettonici di Asnago & Vender, di Ponti, di Magistretti e di tanti master builders che hanno configurato il suo ineguagliabile fascino di elegante modernità. A questa hanno contribuito anche numerosi e importanti artisti - Fontana, Somaini, Pomodoro, Dova, Ramous e altri ancora.- che hanno impreziosito in maniera unica le facciate e gli interni delle case milanesi. Dopo la «stagione dell’inquietudine» tipica degli anni Settanta, l’attenzione si sposta sulla rigenerazione di vecchi quartieri e sulla creazione di nuove isole di urbanità, grazie anche al contributo di alcuni dei più brillanti talenti dell’architettura internazionale. Ieri come oggi, Milano è moderna.

Informazioni utili 
Titolo: Milano Moderna. Architettura, arte e città 1947-2021. Autore: Fulvio Irace. Editore: 24 ORE Cultura, Milano 2021. Formato: cartonato 24,5 x 28,5 cm. Pagine: 240 pagine con 150 illustrazioni. Prezzo: € 65,00. Codice ISBN: 978-88-6648-577-3. In vendita in libreria e online. Sito web: www.24orecultura.com

venerdì 12 novembre 2021

«Il legno e la carne», il Pinocchio di Mìles in un libro e in una mostra

«C'era una volta... -Un re!- diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno […]». Era il luglio 1881 e il «Giornale dei bambini», inserto settimanale del quotidiano «Il Fanfulla», pubblicava la prima puntata di «Storia di un burattino», romanzo di Collodi (pseudonimo dello scrittore Carlo Lorenzini) destinato a diventare, con il titolo «Le avventure di Pinocchio», il libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia.
Esuberante fino allo sfinimento, intollerante a qualsiasi regola, bugiardo di fronte all’evidenza, ma anche fiducioso nel prossimo, disposto a fare ammenda dei propri errori e ingenuo come solo i sognatori sanno essere, il «burattino più discolo di tutti i discoli» ha conquistato generazioni di piccoli lettori. Agli albori del Novecento, «Le avventure di Pinocchio» contavano, infatti, ben trecentomila copie stampate; oggi il libro può essere letto in oltre duecentosessanta lingue (latino ed esperanto compresi) e dialetti, stando agli studi della Fondazione Collodi basati sui dati Unesco. 
A partire dal 1883, data della sua prima pubblicazione a volume, il capolavoro collodiano ha, inoltre, solleticato la fantasia di tanti artisti, da Enrico Mazzanti a Sergio Tofano, da Milo Manara a Benito Jacovitti, da Lorenzo Mattioli a Lele Luzzati e molti altri ancora. Il motivo di questo successo può essere trovato nelle parole di un grande della letteratura italiana come Benedetto Croce, che affermò: «il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità», con i suoi pregi e i suoi difetti. Il libro mette, cioè, nero su bianco – sempre per usare le parole del filosofo abruzzese - «le vie del cuore, di umana debolezza, di dirittura morale, di gratitudine, di commozione, di furberia, di forza morale della bontà».
Su questa scia si muove lo street artist e illustratore Mìles, nome d’arte di Simone Miletta, protagonista della mostra «Il legno e la carne», allestita dal 14 al 5 dicembre negli spazi dell’ARTiglieria di Firenze, un edificio industriale in disuso. L'esposizione è organizzata per iniziativa della Street Levels Gallery e con il prezioso contributo della casa editrice indipendente Contrabbandiera, ideatrice di una nuova collana dedicata all’arte urbana che vedrà i migliori artisti della scena fiorentina illustrare fiabe e altri classici.
La collana sarà inaugurata proprio dal libro «Pinocchio. Il legno e la carne», la cui presentazione è in programma giovedì 18 novembre, dalle 18 alle 21:30. Mìles dialogherà con Marco Tangocci e Davide di Fabrizio; la serata sarà arricchita dalle performance di Luca Provenzani e Amerigo Bernardi, musicisti dell'Orchestra della Toscana.
La mostra fiorentina allinea, nello specifico, settantacinque tavole, che ripercorrono i momenti salienti della fiaba e ci mettono davanti alle avventure di un burattino i cui sentimenti non sono lontani da quelli di un uomo, di qualunque uomo, con le sue meschinità, generosità e compassione, con i suoi affetti e i suoi inganni. L’artista lametino, classe 1979, si dimostra, infatti, «poco interessato ai tòpoi legati ai personaggi collodiani, optando – afferma Alessandra Arpino - per un’analisi degli stati d’animo e degli impulsi comportamentali dettati dalle contingenze della favola come della vita».
L’allestimento della mostra è curato in modo tale da consentire allo spettatore di compiere un percorso continuativo nello spazio, che dia consequenzialità alle immagini e alla storia che narrano. Il percorso procede per sole immagini, ovvero senza didascalie, «in un lungo piano-sequenza – si legge nella nota stampa - in cui coesistono l’uomo e l’animale, la ragione e l’istinto, la realtà e le apparenze, tutto racchiuso in un equilibrio in cui i confini di una cosa e di un’altra si fanno sempre meno definiti».
Acquerello, china, inchiostro e spray su carta sono i linguaggi scelti da Miles per affrontare il racconto collodiano, del quale si dà voce sia ai personaggi che alle ambientazioni e a momenti specifici della narrazione. Geppetto, Mastro Ciliegia, Pinocchio, il Grillo parlante, Mangiafuoco, ma anche la Fata Turchina, il Gatto e la Volpe, la Lumaca, il Gorilla, il Pescecane, Lucignolo scorrono così sotto gli occhi del visitatore. «È interessante notare – racconta ancora Alessandra Arpino - che per Mìles lo stesso personaggio può essere rappresentato in modalità molto diverse a seconda del momento della storia. Su tutti, il Gatto e la Volpe ne costituiscono l’emblema: figure antropomorfe nell’ideazione dell’inganno, animali nell’atto di eliminare il nemico di turno, esseri dalle sembianze informi e cupe al momento del rapimento. In queste tavole è evidente l’intenzione dell’artista di non fermarsi alle maschere da commedia dell’arte, ma di scavare invece tra i comportamenti e le attitudini, a fronte delle situazioni che la vita presenta». 
Il percorso espositivo mette a confronto il visitatore anche con divertissement d’artista, come una tavola dedicata alla coltivazione degli zecchini degna di un manuale di botanica o alcuni lavori che mostrano rimandi cinematografici a scene celebri di Kubrick, Weir, Fincher e Spielberg.
È, dunque, un Pinocchio moderno e minimale, dai volumi definiti e dai chiaroscuri decisi, nel quale convivono luce e buio, sogno e realtà, quello che ci regala Mìles, da sempre interessato a raccontare il rapporto tra l’uomo e il suo tempo, «perché nella contemporaneità si trova tutto: la poesia, il sogno, la narrazione, l’incubo».

Informazioni utili 
Mìles. Il legno e la carne. ARTiglieria, via Cittadella 4 – Firenze. Orario mostra: dal martedì alla domenica, ore 10 – 13 e ore 15 – 19. Ingresso libero. Informazioni: tel. + 39 333 6745750. Sito internet: www.streetlevelsgallery.com. Dal 14 al 5 dicembre 2021

venerdì 11 giugno 2021

«Il segno di Ustica», in un libro «l’eccezionale percorso artistico nato dalla battaglia per la verità»

Quella del 27 giugno 1980 era una sera d’estate come tante altre. In molti aeroporti d’Italia c’era chi partiva per le vacanze, chi tornava da un viaggio di lavoro e chi, all’atterraggio, avrebbe festeggiato il matrimonio di un amico o un esame andato bene. Lo stesso accadeva al «Guglielmo Marconi» di Borgo Panigale, nel Bolognese, dove intorno alle 20:00, due ore dopo l’orario previsto, decollava un aereo destinato a restare nella storia con il suo carico di misteri e di verità taciute. Era l’aeromobile Douglas DC-9 IH 870 della compagnia aerea Itavia, con destinazione Palermo, che un’ora dopo la partenza, alle 20:59, spariva dai radar nel tratto di mare compreso tra le isole di Ponza e Ustica, facendo perdere ogni traccia.
Su quell’aereo, i cui detriti furono trovati la mattina dopo, c’erano ottantuno persone, che ancora oggi cercano giustizia per la loro morte senza spiegazione: 64 passeggeri adulti, 11 ragazzi tra i due e i dodici anni, due bambini di età inferiore ai 24 mesi e 4 uomini dell’equipaggio.
Dopo decenni di indagini e di processi, tra reticenze e depistaggi, la tesi più accreditata è che il volo di linea Itavia IH870 si sia inabissato nel mare per errore, durante una battaglia in cielo tra un Mig libico, su cui ci sarebbe stato Gheddafi, e alcuni velivoli delle forze Nato.
Ma cos’è successo realmente quella sera? Perché quell'aereo è caduto? Cosa lo ha distrutto in volo? A quarantuno anni di distanza queste domande rimangono ancora senza risposta. La strage di Ustica è uno dei tanti misteri italiani ed è anche quello che più di tutti ha suggestionato il mondo delle arti, dal teatro alla danza, dalla letteratura al cinema, dalla poesia alla fotografia.
«A nessun evento, dal secondo Dopoguerra a oggi, è stata dedicata una mole altrettanto ampia, per quantità e qualità, di produzione artistica». Questa è la tesi del libro «Il segno di Ustica», a cura di Andrea Mochi Sismondi, autore e direttore del collettivo di produzione artistica e teatrale Ateliersi di Bologna, che con Fiorenza Menni, sua compagna di vita e lavoro, ha debuttato nel 2016 con l'opera poetica elettronica «De Facto», ideata a partire dal testo della sentenza-ordinanza depositata il 31 agosto 1999 dal giudice istruttore Rosario Priore, l’unico documento giudiziario complessivo cui possa fare riferimento chi cerchi di comprendere cosa sia accaduto nei cieli italiani la sera del 27 agosto 1980.
Edito da Cuepress, e in uscita il 22 giugno, il volume verrà presentato in anteprima giovedì 17 a Mantova, al Cinema del Carbone; seguiranno, poi, due incontri di presentazione in altrettanti luoghi simbolici come Bagnacavallo (24 giugno), dove è nata l’iniziativa «Teatri per la Verità», e Bologna (15 luglio), dove sono conservati i relitti dell’aereo.
Il libro è strutturato in una serie di conversazioni tra l’autore e gli artisti che, in questi quarantuno anni, hanno sentito l’urgenza di confrontarsi, attraverso diversi approcci e differenti linguaggi, con la strage di Ustica.
Grazie anche al ricco apparato iconografico e alle conversazioni con studiose e studiosi che hanno approfondito questa vicenda, «emerge con nettezza – si legge nella quarta di copertina - la forza delle opere prodotte, e il segno comune di un contributo originale e incisivo alla riflessione sulla dimensione politica dell’arte e sul suo rapporto con la storia».
Tra i protagonisti delle conversazioni c’è Christian Boltanski, uno tra gli interpreti più sperimentali e innovativi del nostro tempo, quello che più di chiunque altro ha saputo interpretare e raccontare in maniera viva e pulsante il tema della memoria.
Nel 2007 l’artista francese ha realizzato, nell’allora nascente museo bolognese sulla strage di Ustica, un’imponente e drammatica installazione permanente intorno ai resti del DC-9. Oggi come allora dal soffitto dello spazio di via Saliceto, visitabile anche on-line, scendono ottantuno lampadine, una per ogni vittima, che si accendono e si spengono a intermittenza, al ritmo del respiro. Tutt’intorno ci sono ottantuno specchi neri che riflettono l’immagine di chi percorre il ballatoio posto attorno al relitto. Mentre, dietro ognuno di essi, ottantuno altoparlanti emettono parole e frasi sussurrate a sottolineare la casualità e l’ineluttabilità della tragedia. Infine, nove casse, coperte da un drappo nero, contengono, gli oggetti appartenuti alle vittime: scarpe, pinne, boccagli, occhiali e vestiti che documenterebbero la scomparsa di un corpo, rimangono così invisibili agli occhi dei visitatori.
Andrea Mochi Sismondi ha interpellato anche Nino Migliori, che a quella «guerra in tempo di pace» ha dedicato la mostra «Stragedia», allestita lo scorso anno, in occasione del quarantesimo anniversario, negli spazi dell’ex chiesa di San Mattia a Bologna.
L’esposizione nasceva da lontano. Nel 2007, poco tempo dopo che il relitto del velivolo, recuperato al largo dell’isola di Ustica, aveva compiuto lo straziante percorso a ritroso che dall’aeroporto di Pratica di Mare lo aveva riportato a Bologna, il fotografo emiliano aveva ottenuto il permesso per entrare negli ampi spazi dell'ex magazzino dell’azienda di trasporti cittadina Atc., che, da lì a poco, sarebbero diventato un museo. Nino Migliori era rimasto in quel luogo quattro notti e, a lume di candela, aveva fotografato i resti dell’aereo non ancora ricomposto nella sua forma originaria intorno allo scheletro della fusoliera. Il risultato sono ottantuno immagini, una per ogni vittima, che illuminano, con una tremula fiamma che ha il sapore di un cero votivo, i muti testimoni - rottami contorti, piegati, spezzati e rotti - di quella che il fotografo emiliano definisce una «stragedia», neologismo inventato per congiungere l’idea della tragedia a quella di una volontà stragista.
Non poteva, poi, mancare tra gli intervistati Marco Paolini, uno dei principali interpreti del teatro civile italiano, che nel 2000, qualche anno dopo lo spettacolo sul Vajont, ha scritto «I – Tigi. Canto per Ustica», un monologo, presentato in centinaia di repliche in tutta Italia, che parte dalla sentenza istruttoria depositata dal giudice Priore per raccontare una storia che contiene in sé – scrive l’autore - «tutti gli elementi della tragedia classica, come l’insepoltura, la mancanza di giustizia, il confronto impari tra vittime e potere».
Tra gli intervistati ci sono, anche Marco Risi, regista del film «Il muro di gomma» (1991), i giornalisti Michele Serra e Andrea Aloi, autori di un dossier per il settimanale «Cuore» dal titolo «Com'è profondo il mare. La strage di Ustica e la satira» (1994), la cantautrice Giovanna Marini, che ha firmato «Ballata di Ustica» e altri brani sulla tragedia, confluiti nell'opera «Cantata del secolo breve».
Per questo incontro tra cultura e storia, è stata fondamentale l'azione dell’associazione parenti delle vittime, che ha scelto di integrare la sua battaglia decennale per la verità con la sperimentazione artistica, assumendo un ruolo produttivo particolarissimo nel contesto della creatività contemporanea.
«Dalla voce degli artisti emerge la potenza dell'incontro con i parenti delle vittime, in particolare con Daria Bonfietti, con il relitto del DC-9 e con il materiale documentario relativo alla strage - afferma Andrea Mochi Sismondi -. L'incontro con la strage di Ustica solleva negli artisti la necessità di confrontarsi con il proprio sé più profondo, con la propria autenticità, andando oltre il proprio armamentario formale consolidato per ripensare il proprio gesto creativo. Le questioni sollevate dalla vicenda che forse - a causa delle innumerevoli menzogne, dei tanti depistaggi e dei continui insabbiamenti - più di ogni altra ha segnato il trauma collettivo della rottura del patto di fiducia tra Stato e cittadini, fa sì che Ustica porti gli artisti ad allontanarsi dalla retorica del «Mai più!» per concentrarsi invece sui nodi irrisolti, sulle crepe del contemporaneo, sugli aspetti ancora attuali che essa squarcia. Ecco perché il libro parla del passato ma guarda, attraverso l'arte e la sua capacità interpretativa, al presente e al futuro».

Didascalie delle immagini
1. Il segno di Ustica. Copertina del libro; 2. Andrea Mochi Sismondi. Ritratto di Margherita Caprilli; 3. Nino Migliori, Stragedia, 2007-2020. © Fondazione Nino Migliori; 4. Polvere (b) / Fuga. Opera musicale di Franck Krawczyk. Foto di Tomaso Mario Bolis; 5. I-TIGI Racconto per Ustica. Marco Paolini con il fondale creato appositamente per lo spettacolo da Germano Sartelli. Foto di Tomaso Mario Bolis; 6. Di fronte agli occhi degli altri, di Virgilio Sieni. In scena lo stesso Sieni insieme a Daria Bonfietti. Foto di Tomaso Mario Bolis; 7. Lamberto Pignotti,Memorandum I, composit, 50x35 cm, 2018

Informazioni utili
https://www.cuepress.com/catalogo/il-segno-di-ustica

lunedì 24 maggio 2021

Dai cameo cinquecenteschi ai selfie contemporanei: in un libro di 24 Ore Cultura «L’autoritratto» nel corso dei secoli

Per secoli gli artisti hanno escogitato modi per includere sé stessi all’interno delle loro opere, disseminando tracce della propria presenza in dipinti, disegni, sculture e - in epoca più recente - film, fotografie e installazioni. Dagli antichi cameo ai selfie contemporanei sono numerosi i sistemi con cui, dal XV secolo ai giorni nostri, gli artisti hanno trattato il tema dell’autorappresentazione. A raccontarli è da qualche settimana, dall’uscita in libreria e on-line dello scorso 11 marzo, un libro a della scrittrice e curatrice Natalie Rudd, edito da 24 Ore Cultura nella collana Art Essentials, che raccoglie testi che offrono un’introduzione di prim’ordine alle idee, ai personaggi e alle opere della storia dell’arte che più hanno influenzato il nostro modo di vedere il mondo. Accanto a volumi come «50 momenti che cambiarono l’arte» di Lee Cheshire e «Le donne dell’arte» di Flavia Frigeri, il libro «L’autoritratto» di Natalie Rudd, Senior Curator dell’Arts Council Collection, prestigiosa collezione di arte moderna e contemporanea, racconta come nel corso del tempo, dal Rinascimento tra Italia e mondo fiammingo per arrivare ai nostri tempi, l’autorappresentazione continui a essere largamente praticato dagli artisti nelle sue diverse forme e amato dal pubblico per la sua capacità di illuminare un’ampia gamma di questioni universali: identità, umana fragilità, scopo dell’esistenza, mortalità.
Attraverso l’analisi di alcuni tra i più grandi capolavori della storia dell’arte, l’autrice esplora in ogni capitolo del libro l’opera di un artista diverso, proponendo una visione specifica di sessanta stili e approcci, prendendo in considerazione le varie tecniche utilizzate e i diversi modi per esprimere sé stessi.
Il viaggio si snoda partendo dal cameo di Jan van Eyck nel «Ritratto dei coniugi Arnolfini», passando per i dipinti tormentati di Francisco Goya, Vincent van Gogh, Eduard Munch e Frida Kahlo fino ad arrivare a tecniche tipiche della contemporaneità come la fotografia di Cindy Sherman, la performance di Marina Ambramović e l’installazione di Tracey Emin.
Le ragioni per cui gli artisti nel corso dei secoli hanno scelto di rappresentare sé stessi nelle loro opere sono molteplici: alcuni hanno usato sguardi rivolti all’osservatore ed espressioni criptiche per esprimere condizioni interiori, crisi profonde o rivelazioni sconvolgenti. Tanti si sono ritratti con pennello e tavolozza in mano per promuovere il loro lavoro. Altri ancora hanno, invece, esplorato il potenziale camaleontico del genere e trovato infinite possibilità di gioco, di nascondimento, di mascheramento e trasformazione.
Grande spazio viene dato nel volume alle artiste donne, che dell’autoritratto spesso hanno fatto un simbolo di espressione della condizione femminile e una rivendicazione delle proprie capacità. Nate in un contesto prettamente patriarcale, dove l’azione artistica era ad uso esclusivo dell’uomo, Artemisia Gentileschi e Sofonisba Anguissola attraverso l’autoritratto trovano la libertà di esplorare i temi dell’identità e del genere: la prima esprimendo con la pittura il suo ruolo di donna vincente, la seconda sfruttando la propria intelligenza per compiere sottili trasgressioni. Mentre Dorothea Tanning giocando con i simbolismi e gli scenari onirici della sua opera si impone a tutti gli effetti nel panorama del surrealismo, mettendosi sullo stesso piano dei suoi colleghi uomini. Infine, Zanele Muholi, giovane artista sudafricana - il cui autoritratto è anche la copertina del libro - usa la fotografia per parlare di attivismo politico e sostegno alle minoranze: grazie alle tecniche di postproduzione intensifica il nero della propria pelle, celebrandone la bellezza in risposta ai media generalisti che cercano invece di schiarire i corpi neri.
In un’epoca che si interroga più che mai sulle nozioni di identità personale, il libro approfondisce la questione centrale del perché gli artisti ritornino più e più volte all’autoritratto, illustrando come questo genere riesca a rivelare i volti mutevoli dell’individualità e dell’egoismo.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Cover «L’autoritratto» di Natalie Rudd; [fig. 2][fig. 2] Sofonisba Anguissola, Autoritratto al cavalletto, fine anni Cinquanta del XVI secolo. Olio su tela, 66 x 57 cm. Museum-Zamek, Lancut, Polonia; [fig. 3] Dorothea Tanning, Compleanno, 1942- Olio su tela, 102 x 65 cm, Philadelphia Museum of Art, Philadelphia. Acquisizione in occasione del 125° anniversario con il contributo di C. K. Williams, II, 1999 (1999-50-1). Dorothea Tanning © ADAGP, Paris and DACS, London 2021

Informazioni utili
Titolo: L’autoritratto. Editore: 24 ORE Cultura. A cura di: Natalie Rudd. Formato: brossura 14 x 21,5 cm. Pagine: 176 pp. corredate da 100 illustrazioni. Prezzo: € 14,90. Codice ISBN: 978-88-6648-526-1. In vendita in libreria e on-line. Sito internet: www.24orecultura.com