ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

martedì 30 settembre 2014

«Architetti in famiglia», con il Fai alla scoperta dell’architettura milanese del Novecento

Sarà un incontro su Giovanni Muzio (Milano, 12 febbraio 1893 – 21 maggio 1982), esponente di rilievo del movimento artistico Novecento al quale si devono opere come il Santuario di Sant’Antonio a Varese e la Basilica dell’Annunciazione a Nazareth, a inaugurare il ciclo di appuntamenti «Architetti in famiglia», promosso dal Fai – Fondo per l’ambiente italiano nelle sue due sedi di Villa Necchi Campiglio e della Cavallerizza.
Otto gli incontri in agenda dal 1° ottobre al 20 dicembre, che, attraverso voci di amici e familiari, racconteranno la storia di altrettanti progettisti che hanno lasciato il loro indelebile segno nella Milano del Novecento, svelandone anche la sfera privata, il lessico familiare e il carattere.
Dalle scatole dei ricordi emergeranno così voci e immagini che permetteranno di rivivere la vita e l’opera di interessanti protagonisti della progettualità lombarda quali Piero Portaluppi, Tomaso Buzzi, Guglielmo Ulrich, Gio Ponti, Franco Albini, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Pier Giulio e Vico Magistretti, oltre al già citato Giovanni Muzio.
La figura di quest’ultimo sarà ricordata a Villa Necchi mercoledì 1° ottobre dal nipote, omonimo dell’architetto, intervistato da Roberto Dulio, docente al Politecnico di Milano. Sarà un’occasione, questa, per andare alla scoperta di come siano nati edifici di culto milanesi come la chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, quella dei Santi Quattro Evangelisti e ancora quella di San Giovanni Battista alla Creta o come siano state ideate opere civili quali la Ca’Brutta in via della Moscova e il Palazzo dell’Arte, sede attuale della Triennale di Milano.
A seguire, mercoledì 15 ottobre, la dimora di via Mozart ospiterà un incontro su Piero Portaluppi (Milano, 1888-1967), con il nipote Piero Castellini, intervistato da Luca Molinari, docente all’università «Luigi Vanvitelli» di Napoli e collaboratore di prestigiose riviste quali «Abitare», «Domus» e «Ottagono». All’architetto milanese, di cui è nota anche la sua passione per il disegno satirico, si devono una serie di importanti progetti, tra i quali la Casa degli Atellani, la sistemazione della Pinacoteca di Brera, il Palazzo della Banca commerciale italiana, il Planetario Hoepli e il palazzo per la Società Buonarroti-Carpaccio-Giotto in corso Venezia. Portaluppi firmò anche, negli anni Trenta, il progetto di Villa Necchi Campiglio, raffinato scrigno di modernità e gusto dell’abitare, che viene considerata il suo capolavoro in fatto di edilizia residenziale.
Il ciclo di incontri promosso dal Fai – Fondo per l’ambiente italiano analizzerà, quindi, la figura di Tomaso Buzzi (Sondrio, 1900- Rapallo,1981), attraverso una conversazione con Marco Solari e Valerio Terraroli, in programma mercoledì 29 ottobre. Fervido e instancabile disegnatore, il progettista che ha legato il proprio nome alla storia della Venini & C. -raccontano al Fai- «fu architetto e arredatore della nobiltà e dell’alta borghesia italiana, classe sociale quest’ultima a cui apparteneva la famiglia Necchi Campiglio che, a partire dal 1938, affidò proprio a lui il riallestimento della propria abitazione milanese. Con grande gusto e raffinatezza egli seppe esaudire le richieste dei suoi illustri committenti riformulando in chiave moderna stimoli ed elementi provenienti dalla storia dell’arte antica, soprattutto dal Cinquecento al Settecento, accostandoli con una cifra stilistica del tutto personale».
L’ultimo incontro a Villa Necchi, in programma il 12 novembre, analizzerà, invece, la vita e l’opera di Guglielmo Ulrich (Milano, 1904-1977), uno dei più apprezzati protagonisti della storia del mobile italiano degli anni Trenta, attraverso le parole e i ricordi di Giancorrado Ulrich, intervistato da Luca Scacchetti.
La rassegna «Architetti in famiglia» si sposterà, quindi, alla Cavallerizza, dove il 19 novembre Salvatore Licitra e Massimo Martignoni dialogheranno intorno alla figura di Gio Ponti (Milano, 1891-1979), professionista dall'ingegno multiforme che si dedicò anche all'arredamento e alle arti decorative svolgendo in questo campo un'importante opera di rinnovamento, il cui nome è legato principalmente alla costruzione del modernissimo Grattacielo Pirelli, progettato e realizzato tra il 1956 e il 1961.
Sarà, quindi, la volta di un incontro su Franco Albini (Como, 1905 – Milano, 1977), progettista che lasciò ai milanesi la segnaletica e l’allestimento delle stazioni della linea 1 della metropolitana, del quale parleranno, nel pomeriggio del 26 novembre, Marco e Paola Albini.
Alberico e Ricciarda Barbiano di Belgiojoso ricorderanno, poi, la figura di Lodovico Barbiano di Belgiojoso (1909-2004), la seconda B del celebre Studio BBPR, vero e proprio laboratorio della modernità fondato insieme agli architetti Banfi, Peressutti e Rogers, che si occupò, tra l'altro, dell’allestimento della IX Triennale, della progettazione e realizzazione della celebre torre Velasca e del riallestimento museale del Castello Sforzesco. A condurre l'appuntamento, in agenda per mercoledì 3 dicembre, sarà Maria Vittoria Capitanucci.
Mentre a chiudere il ciclo di incontri, tutti in programma dalle ore 18.45 e ad ingresso gratuito, sarà il 10 dicembre un appuntamento su Pier Giulio (1891-1945) e Vico (1920-2006) Magistretti, con Margherita Pellino e Stefano Poli. Un’occasione, quella offerta dal Fai, per avere un’immagine inedita e insolita di grandi progettisti del Novecento milanese, ma anche di architetture simboliche della città.

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Locandina del ciclo di incontri «Architetti in famiglia»; [fig. 2] Veduta esterna di Villa Necchi Campiglio a Milano; [fig. 3] Veduta esterna della Cavallerizza di Milano, sede degli uffici del Fai – Fondo per l’ambiente italiano. 

Informazioni utili 
 «Architetti in famiglia». La grande architettura milanese raccontata dai familiari dei protagonisti. Dove: Villa Necchi Campiglio, via Mozart 14 - Milano; La Cavallerizza, via Carlo Foldi 2 - Milano. Ingresso libero. Calendario degli incontri: http://www.fondoambiente.it/Attivita-FAI/Index.aspx?q=architetti-in-famiglia. Informazioni: tel. 02.467615252-346 o ufficio_cultura@fondoambiente.it. sito internet: www.fondoambiente.it. Dal 1° ottobre al 10 dicembre 2014.

lunedì 29 settembre 2014

Venezia, Lorenzo Lotto tra i tesori di Palazzo Cini a San Vio

Un altro ospite illustre anima il percorso espositivo della Galleria di Palazzo Cini a San Vio, straordinaria casa-museo veneziana che la Fondazione Giorgio Cini ha da poco restituito alla fruizione del pubblico grazie al sostegno delle Assicurazioni Generali e in occasione del sessantesimo anniversario del suo Istituto di storia dell’arte.
Dopo il «Ritratto di giovane con liuto» del Bronzino, in mostra da maggio a luglio, l’elegante palazzo lagunare che fu dimora di Vittorio Cini ospita, fino al prossimo 2 novembre, l’«Adorazione dei pastori» di Lorenzo Lotto, capolavoro della maturità del pittore veneziano, proveniente dalla collezione della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, ora conservata al museo di Santa Giulia.
L’iniziativa è proposta nell’ambito del serie espositiva «L’ospite a Palazzo», un’operazione che, grazie a nuove intese con istituzioni internazionali, vedrà le sale della collezione permanente di Palazzo Cini accogliere ogni anno un’opera ospite, intrecciando relazioni visive, dialogiche e di contenuto con gli altri lavori conservati nella galleria veneziana ed esprimendo sottili relazioni tra raccolte artistiche affini per valore, storia e significato.
L’«Adorazione dei pastori», realizzata intorno al 1534, è un’opera dalla funzione devozionale e fu con ogni probabilità commissionata all’artista da due membri della famiglia Baglione di Perugia, Braccio II e Sforza, i cui ritratti sarebbero celati nelle fattezze dei due pastori a destra nella composizione. La notizia della provenienza giunse dal mercante che nel 1825 vendette il dipinto al conte Paolo Tosio, il cui raffinato e colto collezionismo ha dato origine al primo nucleo della Pinacoteca bresciana, che comprende attualmente circa ottocento dipinti, databili dal XIII al XVIII secolo, realizzati da importanti artisti quali, per esempio, Raffaello, Lorenzo Lotto, Giovanni Battista Moroni, Andrea Appiani e Francesco Hayez.
Nel quadro, giocato su accostamenti cromatici di grande suggestione ed effetti luministici e atmosferici di mirabile intensità, il tema dell’adorazione dei pastori viene descritto con sensibilità bucolica. La Vergine è inginocchiata in primo piano e adora il Bambino poggiato su un panno bianco e sulla paglia, all’interno di una cesta di vimini, secondo la più antica tradizione iconografica della Madonna dell’Umiltà. Alle spalle si vedono San Giuseppe, il bue e l’asinello.
Sulla destra due angeli dalle lunghe ali spiegate, sublimi intermediari tra cielo e terra come spesso avviene nel «teatro sacro lottesco, introducono i pastori al cospetto della Sacra famiglia. Non vi è dubbio che queste due figure rappresentino i committenti, come dimostrano i loro eleganti abiti cinquecenteschi, visibili sotto le modeste tuniche. I due portano in dono un agnello, verso il quale il Bambino allunga le proprie braccia, allusione simbolica al destino sacrificale del Cristo.
Grazie a quest’iniziativa che porta a Venezia la straordinaria «Adorazione dei pastori» della Pinacoteca Tosio Martinengo, è possibile delineare anche un ideale itinerario lottesco nel sestiere di Dorsoduro, costituito dalla chiesa dei Carmini, con la pala raffigurante «San Nicola in gloria e santi» (1527-29), e dalle vicine Gallerie dell’Accademia, con lo straordinario «Ritratto di giovane» (1530 ca.). Un itinerario, questo, che si può estendere sino al sestiere di Castello, dove è ospitata, nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo, la pala de «L’elemosina di Sant’Antonino» (1540-42).
Fino ai primi di novembe, il visitatore avrà anche l’occasione di vedere le sale del primo piano nobile del palazzo, arredate con mobili e oggetti d'arte che riflettono il carattere originario dell'abitazione e il gusto personale di Vittorio Cini. In questi spazi sono esposti una trentina di dipinti di scuola toscana, donati da Yana Cini alla fondazione veneziana nel 1984. Accanto alle opere pittoriche, tra le quali spiccano «Il giudizio di Paride» di Sandro Botticelli, la «Madonna con il Bambino e due angeli» di Piero di Cosimo e vari dipinti di scuola ferrarese del Rinascimento, come il «San Giorgio» di Cosmè Tura, sono raccolti alcuni significativi esempi di arti applicate: un servizio completo di porcellana della manifattura settecentesca veneziana dei Cozzi, placchette e cofanetti d'avorio della Bottega degli Embriachi, smalti rinascimentali, oreficerie, sculture in terracotta, credenze, cassapanche di notevole importanza, tra cui un raro cassone nuziale senese della metà del Trecento, e una portantina napoletana del Settecento.
Un’occasione, quella della riapertura di Palazzo Cini a San Vio, per scoprire il raffinato gusto collezionistico di Vittorio Cini, imprenditore e politico che Federico Zeri definì «un vero raccoglitore di pittura antica».

Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Lorenzo Lotto, «L’adorazione dai pastori», 1534 ca. Olio su tela, cm 147x166. Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo; [fig. 2 e 3] Lorenzo Lotto, «L’adorazione dai pastori» - particolare, 1534 ca. Olio su tela, cm 147x166. Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. 

Informazioni utili 
 «L’ospite a Palazzo» - «L’adorazione dai pastori» di Lorenzo Lotto. Palazzo Cini, Campo San Vio, Dorsoduro 864 – Venezia. Orari: ore 11.00–19.00, chiuso il martedì (ultimo ingresso ore 18.15). Ingresso: intero € 10,00, ridotto € 8,00. Informazioni: info@cini.it. Sito web: www.cini.it. Fino al 2 novembre 2014.

venerdì 26 settembre 2014

Firenze, un «Alcesti» per pochi all’ex carcere delle Murate

Venti spettatori per rappresentazione, un solo mese di repliche, nessuna tournée e un luogo dalla storia antica, ma mai adibito a spazio scenico come il Semiottagono dell’ex carcere delle Murate a Firenze: ha tutti gli elementi per far parlare di sé lo spettacolo «Alcesti», rilettura del capolavoro di Euripide firmata da Massimiliano Civica (che ha curato anche la traduzione e l’adattamento del testo), in scena dal 30 settembre al 26 ottobre per iniziativa della Fondazione Pontedera Teatro e di Atto Due, in collaborazione con l’Amministrazione comunale guidata da Dario Nardella e con Rialto Santambrogio di Roma.
A metterà in scena la storia dell’eroina greca, diventata simbolo della sposa fedele disposta a sacrificare la propria vita per salvare quella del marito, sarà un cast pluripremiato formato da Daria Deflorian, Monica Demuru e Monica Piseddu.
I costumi della rappresentazione, che gode del riconoscimento del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo e della Regione Toscana, portano, invece, la firma di Daniela Salernitano (nella cinquina finale dei Nastri d’Argento 2014 per «Song’e Napule»); mentre le maschere sono di Andrea Cavarra e le luci di Gianni Staropoli.
Massimiliano Civica racconta che il suo «Alcesti» è «uno spettacolo che mette in luce come il teatro viva solo perché muore tutte le sere». Nell’era digitale che offre l’illusione di essere «dappertutto e sempre», ciò che avviene su un palcoscenico è, infatti, mortale: accade in un luogo, davanti ad alcune persone, per una sera e quando è finito lo è per sempre. Nemmeno le riprese video possono restituire l’emozione che si vive assistendo a uno spettacolo, la fascinazione del «qui ed ora» di un racconto scritto centinaia di anni fa e ancora oggi attualissimo. Una prova, questa, del fatto che il teatro non è antico o contemporaneo, è eterno.
La regia parte dallo spazio, che non essendo riconducibile a nulla di teatrale ha il compito di purificare lo sguardo degli spettatori: alla sala del Semiottagono si accede attraverso una lunga galleria, una specie di diaframma che separa la città da questo luogo intimo, bianco, scandito nel suo vorticoso sviluppo verso l’alto, da una serie di ballatoi su cui si affacciano le porte delle vecchie celle. In alto il cielo, oltre i vetri di un lucernaio. Il pubblico disposto su un’unica fila di venti sedie bianche, circonderà l’azione scenica.
Le attrici Daria Deflorian e Monica Piseddu, attraverso l’uso delle maschere, daranno vita a tutti i personaggi della tragedia: dei e mortali, servi e nobili, uomini e donne, vecchi e giovani. Alla cantante/attrice Monica Demuru spetterà, invece, il compito di reinventare il canto della tragedia greca, ricercandone gli echi più profondi.
«L'Alcesti di Euripide -spiega il regista- è una tragedia che “dice” l’ineluttabilità della morte e l’obbligo che abbiamo di scegliere come vivere. Pone una domanda che dobbiamo imparare ad accettare come ineludibile: se dobbiamo morire, se dobbiamo ad un certo punto perdere tutto, se non possiamo esserci per sempre, che senso ha vivere? La risposta suona scandalosa alle nostre orecchie di contemporanei: la vita ha senso se scegliamo di vivere per qualcuno, se siamo pronti a sacrificarci per qualcuno. Non perché viviamo, ma per chi viviamo? Alcesti sceglie di morire affinché suo marito continui a vivere. E nella tragedia, per questo suo sacrificio, per questo suo atto d'amore, avviene il miracolo che la riporta in vita, accanto al suo amato. È solo una favola e Euripide lo sa bene, infatti non ci consola, ma ci offre in sacrificio il solo miracolo consentito agli uomini, quello di trovare un senso nell'amore».
Allo spettacolo sarà affiancato un percorso di approfondimento intitolato «Leggere il teatro»: fino al 28 settembre sarà possibile assistere alle anteprime dello spettacolo; mentre dal 20 al 24 ottobre sono in programma cinque incontri (per massimo cinque partecipanti) con il regista per indagare la relazione tra il testo e la complessa pratica di messa in scena nel teatro greco e in particolare nell’«Alcesti», un testo che evidenzia come il suo significato più profondo risieda nella rappresentazione più che nella forma letteraria.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Ex carcere delle Murate a Firenze. Foto: Duccio Burberi; [fig. 2] Daria Deflorian e Monica Piseddu. Foto: Duccio Burberi; [fig. 3] Daria Deflorian e Monica Piseddu. Foto: Duccio Burberi; 

Informazioni utili
«Alcesti». Ex carcere delle Murate, piazza della Madonna della Neve - Firenze. Orari: da martedì a sabato, ore 21.00; domenica, ore 18.00. Ingresso: intero € 12,00, ridotto € 10,00, ridotto speciale € 8,00. Informazioni e prenotazioni (obbligatorie) dello spettacolo: info@attodue.net o tel. 055.4206021. Sito internet: www.pontederateatro.it o www.attodue.net. Dal 30 settembre al 26 ottobre 2014. 

giovedì 25 settembre 2014

«Quartieri dell’Arte», Giancarlo Giannini interpreta Pietro Aretino nel Palazzo dei Papi di Viterbo

È una prima mondiale da non perdere quella che ha messo in cantiere per le serate di sabato 27 e domenica 28 settembre la diciottesima edizione del festival internazionale di teatro «Quartieri dell’Arte», manifestazione nata nel 1997 a Viterbo che vede alla direzione artistica Gian Maria Cervo e Alberto Bassetti e che quest’anno si intitola «Ci sarò non ci essendo come ci sarò essendoci», frase rubata alla commedia «Loipocrito» di Pietro Aretino, che vuole essere un invito a riflettere non tanto sui pur importanti risvolti economici della cultura o sulle relazioni tra Pil e spettacolo quanto sulla capacità che il teatro ha di creare inclusione e di ridefinire il concetto di cittadinanza.
Nel prossimo fine settimana, Giancarlo Giannini e Franco Zeffirelli, due grandi nomi della cultura italiana che si è fatta conoscere all’estero, saranno, infatti, i protagonisti dello spettacolo «Vita di Maria Vergine», uno dei più bei testi prodotti dal genio rinascimentale di Pietro Aretino, nell’ambito del suo lavoro di riscrittura della materia sacra, riadattato per l’occasione da Gian Maria Cervo, autore e traduttore napoletano i cui testi e graphic novel sono pubblicati da Editoria & Spettacolo in Italia e da Suhrkamp e Drei Masken Verlag in Germania.
Ad ospitare l’evento, una sorta di «Divina Commedia» dagli sfondi patetici e psicologici, sarà la prestigiosa e storica cornice del Palazzo dei Papi, location scelta non a caso perché fu qui, durante la festa teatrale del 1462 nella piazza San Lorenzo, che venne rappresentata l’«Assunzione della Vergine».
A dirigere la rappresentazione sarà Adriano De Santis, da molti anni strettissimo collaboratore di Giancarlo Giannini, responsabile della pianificazione e programmazione della Scuola nazionale di cinema al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e autore di prestigiosi allestimenti presentati in prima mondiale nelle passate edizioni di «Quartieri dell’Arte», tra i quali «Se sapessi cantare mi salverei» di Juan Mayorga.
Se Pietro Aretino si preoccupa, nella composizione, di calare il suo descrittivismo pittorico (che in alcuni momenti, molto drammatici, si colora dei toni dell’ascetismo) in una struttura narrativa dai ritmi serrati, concepita per avvincere, Gian Mario Cervo adatta e sintetizza l’opera in una narrazione teatrale per flash rivelando la sua straordinaria modernità.
«È soprattutto merito della lingua efficace e spedita dello scrittore rinascimentale -afferma l’autore partenopeo-. Io mi sono limitato a spostamenti, a piccoli emendamenti nelle scelte verbali e a tradurre il principio di causalità, già fortemente presente nell’opera, in termini più contemporanei. Questo è un lavoro molto ambiguo e, quindi, politico in senso moderno. Pietro Aretino lo scrive per ottenere la porpora cardinalizia, ma nonostante ciò rivendica il suo diritto alla Inventio, alla vivacità, alla riorganizzazione dei materiali sacri per creare una struttura avvincente e affermare la sua personalità d’artista. Credo che sia importante riscoprire un autore come lui, ottusamente censurato in passato. Affidarsi a Giancarlo Giannini, il genio della recitazione italiana, in questa operazione è, poi, un’avventura entusiasmante. Il testo è, inoltre, anche un omaggio a Viterbo. Aretino era in contatto con Vittoria Colonna mentre lo componeva e la poetessa, che gli dava feedback e pareri, abitava nella città in quel periodo» .
Novità dell’ultima ora è la partecipazione allo spettacolo, che si avvale dei movimenti di scena di Silvia Perelli e delle luci di Luigi Biondi, di Franco Zeffirelli, che interpreterà la parte di Dio. Un piccolo cammeo, quello del regista fiorentino, che pur non essere fisicamente presente sul palco, darà il proprio inestimabile contributo alla riuscita dell’evento, rispolverando una tradizione che vide nella Viterbo rinascimentale personaggi in vista interpretare ruoli di spicco in rappresentazioni teatrali.
La serata sarà introdotta dai «Sermones», uno spettacolo di e con Francesca Bartellini ambientato in un futuro prossimo immaginario, nel quale una donna arcivescovo, Madre Eva, che ha raggiunto il potere sacro nelle gerarchie ecclesiastiche della Chiesa cristiano-cattolica, parla ai suoi fedeli mentre riceve missive da una collega inglese che insinua in lei un dubbio: il percorso che l'ha portata fino a lì è giusto? È possibile aprirsi a una costruzione del sacro che abbracci i due principi, il femminile e il maschile, in un unico cerchio magico fondativo? Il finale è una possibile chiave di lettura per l’adattamento dell’opera aretiniana con Giancarlo Giannini e Franco Zeffirelli, un appuntamento per scoprire la scrittura ad argomento religioso di uno dei commentatori più mordaci di uomini ed eventi del Rinascimento.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Palazzo dei Papi a Viterbo; [fig. 2] Giancarlo Giannini, protagonista dello spettacolo «Vita di Maria Vergine» al festival «Quartieri dell’Arte»; [fig. 3] Franco Zeffirelli interpreterà Dio nello spettacolo «Vita di Maria Vergine» al festival «Quartieri dell’Arte»

Informazioni utili
«Vita di Maria Vergine». Palazzo dei Papi | Sala del Conclave, piazza San Lorenzo, 8 – Viterbo. Quando: sabato 27 e domenica 28 settembre 2014, ore 21.00. Ingresso: intero € 30,00, ridotto € 27,00. Informazioni sui biglietti: ufficiostampaquartieridellarte@gmail.com o www.boxofficelazio.it. Sito web: www.quartieridellarte.it.  

mercoledì 24 settembre 2014

Dai fratelli Forman al duo Cuocolo e Bosetti: al «Funaro» di Pistoia lo «slow show» è servito

Una «finestra sul mondo nel cuore della Toscana»: si presenta così il centro culturale «Il Funaro», interessante realtà di Pistoia con due sale teatrali, una biblioteca e una caffetteria che, per il sesto anno consecutivo, propone una stagione teatrale e una serie di attività formative per attori professionisti e pubblico che rivolgono la propria attenzione sia al territorio circostante che alle migliori esperienze internazionali.
A segnare l’avvio del nuovo anno culturale sarà un appuntamento più unico che raro in Italia: «Obludarium», spettacolo culto della compagnia praghese «Fratelli Forman», che da mercoledì 24 a domenica 28 settembre porterà il suo chapiteau nella splendida piazza del Duomo. Per cinque giorni, il pubblico sarà così traghettato in un’atmosfera da circo di inizio secolo, che miscela il sapore del cabaret a quello del più raffinato teatro di figura: marionette -talvolta giganti-, sirene, cavalli, ballerine, ombre, clown sonnolenti e pupazzi porteranno in scena, al ritmo di travolgenti musiche tzigane, il mondo degli esclusi ed il loro fascino. Si apre, dunque, all’insegna dello stupore fanciullesco e del divertimento giocoso il viaggio del centro culturale «Il Funaro» tra le produzione di Peter Brook, il duo Cuocolo e Bosetti, Cristina Pezzoli, Laura Marinoni, Cristiana Morganti, Enrique Vargas e il suo Teatro de Los Sentidos, Francesca Giaconi e molti altri, un viaggio al quale farà da filo rosso la domanda: «la diversità è un limite o una risorsa?».
Una risposta proverà già a darla il secondo titolo in cartellone: «The valley of astonishment» (20 e 21 novembre 2014), un percorso caleidoscopico nei misteri e nelle meraviglie del cervello umano, ispirato da anni di ricerca neurologica, da storie vere e dal poema epico-mistico «La conferenza degli uccelli» di Farid Al-Din Attar, che vede la firma di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne e che sarà portato in scena da Kathryn Hunter, Marcello Magni e Jared McNeill. La programmazione proseguirà, quindi, con «Jessica and me» (11 e 12 dicembre 2014), di e con Cristiana Morganti, una produzione del centro culturale «Il Funaro» con la fondazione «I Teatri» di Reggio Emilia, nella quale la storica danzatrice del «Tanztheater Wuppertal» di Pina Bausch, giunta a un momento importante del suo percorso, si ferma a riflettere sul rapporto con il proprio corpo e con la danza, sul significato dello stare in scena, sul senso dell’«altro da sé» che implica il fare teatro.
Ad aprire il 2015 sarà, invece, il debutto dello spettacolo «La sposa paracadute» (23 e 24 gennaio 2015), un testo di Francesca Giaconi, con Arianna Marano ed Eleonora Spezi, che racconta la storia delle donne italiane nel secondo dopoguerra, una storia fatta di ombre, ricordi, abitudini quotidiane, risate, lettere, che germogliano dalle macerie e si intessono qui in un grande abito da sposa.
Segue, a febbraio, quasi un mese dedicato ad una compagnia la cui diversità si esprime a partire dalla scelta di privilegiare le case come luogo performativo: l’italo-australiana «Iraa Theatre» di Cuocolo/Bosetti. Tre gli spettacoli in agenda, di cui uno a seguito di una residenza creativa: «Serata Dickinson» (7 febbraio 2014), «The secret room» (dall’11 al 15 febbraio 2014) e «Autoritratto come un altro», in anteprima nazionale (27 e 28 febbraio 2014). Tocherà, quindi, esibirsi all’innovativa compagnia inglese di teatro di figura «Blind Summit», nota per aver firmato una parte della Cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Londra 2012, che sarà a Pistoia con la prima nazionale di «The Table» (20 e 21 marzo 2014), un pluripremiato spettacolo di fama internazionale che vede protagonista un burattino-filosofo che, distrazioni permettendo, racconta la sua versione su Dio e Mosé, tramutandosi istantaneamente nel pezzo di cartone più divertente mai incontrato prima. Il 12 giugno andrà, infine, in scena Laura Marinoni, diretta da Cristina Pezzoli, nel reading musicale «L’amore ai tempi del colera», ispirato all’omonimo romanzo di Gabriel García Márquez.
Sono, inoltre, in calendario una serie di spettacoli per i più piccoli: «Le magiche sperimentazioni del dottor Ciokken», a cura di Christian Prestia, «Quasi una favola» del Teatro Velato, «Farfalle» della compagnia Tpo e «La Fata Sbiadita» di Barbini & Sons.
In questa stagione proseguirà, poi, il percorso della Scuola sulla poetica dei sensi di Enrique Vargas e del Teatro de los Sentidos, aperta non solo ad attori, ma anche a psicologi, architetti, insegnanti e a chiunque voglia approfittare dell’incontro con il metodo di un grande maestro che ha unito antropologia e mondo della scena.
Restando sempre in tema di formazione, vanno ricordati i laboratori annuali per tutte le tipologie di pubblico, dai giovanissimi agli anziani e ai diversamente abili: quattordici proposte, che annualmente vedono oltre trecento iscritti e che indirizzano alla recitazione, alla lettura ad alta voce, alla dizione, alla scrittura, al circo, e, novità di quest’anno, anche alla sartoria teatrale. La partenza è prevista per il 6 ottobre e la prima settimana è aperta e gratuita.
Non mancheranno, poi, un progetto legato alla cucina, «Vieni a cena che te le suono», e un laboratorio di letteratura e cinema, «Leggiamo poi si vedrà», ideata da Massimiliano Barbini, curatore della programmazione del «cinema più piccolo del mondo», il Cinetandem dove le proiezioni sono solo per due persone, a richiesta e rigorosamente a sorpresa. Al via, dunque, un nuovo anno di grandi appuntamenti per quella che Andres Neumann ha definito la culla dello «Slow Show», uno spazio che permette al pubblico di vivere il teatro a 360°.

Didascalia delle immagini 
[Fig. 1] Una scena dello spettacolo «Obludarium», con la compagnia praghese «Fratelli Forman»; [fig. 2] Cristiana Morganti, protagonista dello spettacolo «Jessica and me»; [fig. 3] Una scena dello spettacolo «The Table», con la compagnia inglese di teatro di figura «Blind Summit» 

Informazioni utili 
Centro culturale «Il Funaro», via del Funaro, 16/18 – Pistoia. Informazioni: tel. 0573.977225 o tel. 0573.976853, e-mail: info@ilfunaro.org. Sito web: www.ilfunaro.org.

martedì 23 settembre 2014

Da Shakespeare agli eventi del Bric à bar: tre mesi di cultura e gusto al teatro Lo Spazio di Roma

Non poteva che essere un omaggio a William Shakespeare, drammaturgo del quale ricorrono quest’anno i quattrocentocinquanta anni dalla nascita, a inaugurare il settimo anno di attività del teatro Lo Spazio di Roma, sala multifunzionale diretta da Alberto Bassetti e Francesco Verdinelli che fa coesistere diverse forme di spettacolo dal vivo, proponendo una programmazione di qualità, ricerca e innovazione incentrata sulla drammaturgia contemporanea, originale o rielaborata da testi classici.
Fino al 5 ottobre, il teatro capitolino apre, infatti, le proprie porte a Roberto Herlitzka con il suo «ExAmleto», un monologo fedele al testo shakespeariano nelle parole, ma non nella struttura, che da più di dieci anni è in tournée nelle principali sale italiane e che riscuote sempre un grande successo di critica e di pubblico.
La programmazione proseguirà, quindi, con il reading «Anima animale», nel quale Daniela Poggi, diretta da Luca De Bei, proporrà un viaggio nel sorprendente mondo dei sentimenti e delle emozioni provate da cani, gatti, galline, mucche, elefanti e non solo attraverso racconti, testimonianze e storie di vita.
Lo spettacolo, in scena dal 7 al 19 ottobre, si avvale delle musiche di Francesco Verdinelli e sarà integrato -in corso d’opera- da incontri, dibattiti e aperitivi sul mondo vegano e animale, che documenteranno la profonda sensibilità, il coraggio, la generosità, la fedeltà, la memoria inossidabile dei nostri amici a quattro zampe e di tante altre specie, tutte animate da «un soffio divino», come diceva Giovanni Paolo II.
A seguire, dal 21 al 26 ottobre, Alberto Bassetti proporrà il suo ultimo e apprezzato lavoro: «Edipo in compagnia», con Paolo Graziosi ed Elisabetta Arosio.
Graziano Piazza sarà, invece, il protagonista, dal 27 al 29 ottobre, di un insolito testo di Robert Schneider, diretto da Cesare Lievi: «Schifo» («Dreck»), un’opera considerata da Giovanni Raboni «un autentico esempio di teatro civile capace di coinvolgere lo spettatore con gli strumenti specifici dell’emozione estetica», nella quale è raccontata la dinamica di una società che, invece, di accusare se stessa non esita ad attribuire agli altri -a quelli che non le appartengono, agli extra-comunitari- la colpa della propria decadenza.
Sarà, quindi, la volta, nel pomeriggio del 2 novembre, dello spettacolo per ragazzi «Lo cunto de li cunti di Basile», con Anna Mingarelli e per la regia di Alessandro Cavoli, una narrazione semplice e immediata, sul modello di quelle dei cantastorie medioevali e della Commedia dell’arte, ispirata a tre favole della tradizione europea: «Davanti alla legge» di Franz Kafka, «Petrosinella» e «La gatta Cenerentola» di Giovambattista Basile.
In serata, Alessandro Cavoli sarà ancora protagonista con lo spettacolo «O Bu!.... Osteria Del Canale», un monologo con musiche dal vivo ispirato al «Viaggio al termine della notte» di Céline.
Evelina Nazzari, Alessandro Pala, Maddalena Recino saranno, poi, i protagonisti, dal 4 al 9 novembre, di un classico pinteriano, «Vecchi tempi», riallestito da Rosario Tronnolone secondo la sua originale formula di partita mentale a scacchi: un misterioso giallo dei sentimenti, la cui soluzione è solo accennata, intuita, come sospesa.
Dall’11 al 16 novembre sarà, quindi, in scena sul palco del teatro Lo Spazio Maria Letizia Gorga che reinterpreterà Mercedes Sosa in «Todo cambia», un testo scritto da Pino Ammendola che lega il racconto della grande passionaria argentina, donna che ha usato la propria arte come strumento di lotta a favore degli ultimi e che è stata testimone internazionale della silenziosa battaglia della madri di Plaza de Mayo, a una partitura musicale ininterrotta, suonata dal vivo da Stefano De Meo al pianoforte e Pino Iodice alla chitarra.
Dal 18 al 23 novembre sarà, invece, in scena «I’m not religious», spettacolo scritto e diretto da Marco Marciani, nel quale Francesca Pettinelli racconta la storia di una cantante araba che pone fine ai suoi giorni poiché non le è permesso di raccontare la sua storia: una riflessione sul mondo della coscienza e della conoscenza femminile in un’epoca ancora costretta ad isolamenti di genere.
Spazio, quindi, a un omaggio alla scrittrice francese Marguerite Duras, nel centenario della nascita, con lo spettacolo «Duras mon amour» di Gennaro Colangelo, che vedrà in scena, dal 25 al 30 novembre, Anna Clemente Silvera.
A seguire, dal 2 al 14 dicembre, Ulderico Pesce, attore stabile del teatro Lo Spazio, sarà protagonista dello spettacolo «Asso di monnezza», nel quale si tratta dei rifiuti urbani e industriali che attanagliano l'Italia e che fanno arricchire pochi a discapito della salute di molti e dell’ambiente.
Un appuntamento di alto valore civile sarà anche quello che, dal 16 al 21 dicembre, vedrà in scena Mascia Musy e Maria Letizia Gorga, dirette da Giuseppe Argirò: «L’altra madre», un excursus che parte da Medea per arrivare alle colpevoli di molti infanticidi di cui parla tristemente la cronaca quotidiana dei nostri giorni. Infine, a chiudere l’anno teatrale, dal 23 al 30 dicembre, saranno i tre primi classificati della rassegna «Corti teatrali»: gli spettacoli «Un signore in vestaglia domani si sveglierà presto» di Massimo Odierna, «Mise en place» di Daniele Amendola e Pietro Pace, «Amaterasu version» della compagnia pugliese «Madimù».
Alle molteplici proposte teatrali di questi primi tre mesi di programmazione della stagione 2014/2015, il teatro Lo Spazio affianca una serie di eventi tra dj set, concerti live, performance teatrali e serate di video-arte, promossi dalla nuova gestione dell’area ristoro:
il Bric à bar. Un’occasione, questa, per scoprire che il teatro ha anche un ottimo gusto. (s.am.)

Didascalie delle immagini 
[Figg.1 e 2] Interno del teatro Lo Spazio di Roma; [fig. 3] Veduta dello spazio ristoro del Lo Spazio di Roma; [fig. 4] Ritratto di Roberto Herlitzka, protagonista del monologo «ExAmleto»; [fig. 5] Una scena dello spettacolo «Schifo» («Dreck») di Robert Schneider, con Graziano Piazza; [fig. 6] Una scena dello spettacolo «Asso di monnezza», con Ulderico Pesce. Foto: Gianni Santilio [Per le immagini si ringrazia Elisabetta Castiglioni] 

Informazioni utili 
Teatro Lo Spazio, via Locri, 42/44 (traversa di Via Sannio, a 100 metri da Metro S. Giovanni) – Roma. Orari spettacoli: da martedì a sabato, ore 20.45; domenica, ore 17.00. Ingresso: da € 7,00 a 12,00 euro. Informazioni: tel.06.77076486 o tel. 06.77204149 , info@teatrolospazio.it. Sito internet: www.teatrolospazio.it. Dal 23 settembre al 30 dicembre 2014. 

lunedì 22 settembre 2014

«Dormiente», una Contemporary art map per scoprire i tesori contemporanei della Valdelsa

Una mappa a fumetti per conoscere il territorio della Valdelsa e le sue installazioni di arte contemporanea: si potrebbe descrivere così «Dormiente», l’inedita guida turistica nata nell’ambito del progetto «Fenice Contemporanea 2014» da un’idea di Comincon, Arte continua e Culture Attive, che è stata inserita nel cartellone delle iniziative in programma per la candidatura di Siena a Capitale europea della cultura 2019.
La curiosa Contemporary art map, la cui presentazione ufficiale è prevista per giovedì 30 ottobre, è un’antologia di storie a fumetti che interpreta dal punto di vista narrativo e grafico, attraverso dodici brevi suggestioni, altrettante opere di grandi artisti contemporanei -da Antony Gormley a Cai Guo Qiang e Jospeh Kosuth- sparse tra i comuni di Poggibonsi, Colle di Val d’Elsa e San Gimignano, riflettendo non solo sui concetti alla base dei loro interventi, ma anche sul rapporto tra le opere e il contesto cittadino.
Il volume, pubblicato a colori da Comicon edizioni, avrà un formato atipico pensato per un pubblico trasversale, dal lettore del fumetto di ricerca fino al semplice visitatore.
La copertina sarà realizzata da Bianca Bagnarelli; mentre la veste grafica sarà curata da Delebile, un gruppo di artisti formato, tra gli altri, da Ugo Schiesaro, Andrea Settimo, Paolo Cattane e dallo sceneggiatore Lorenzo Ghetti.
Oltre cento pagine comporranno la pubblicazione, arricchita da una cartina allegata e staccabile, con testi e schede sulle opere e testimonianze delle altre attività realizzate dagli artisti Maria Pecchioli e Massimo Ricciardo.
Il libro, che sarà in distribuzione nei siti turistici del Senese e in tutte le fumetterie italiane, ha preso forma da un progetto di residenze d’artista promosso dalle Amministrazioni comunali di Poggibonsi, San Gimignano e Colle di Val d’Elsa, con la collaborazione della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, di Vernice Progetti Culturali e della Fondazione Elsa e con il contributo economico della Regione Toscana nell’ambito di ToscaninContemporanea2013. Obiettivo dell’iniziativa era far rivivere il patrimonio d’arte contemporanea presente in Valdelsa grazie al lavoro di artisti quali Maria Pecchioli, Massimo Ricciardo, il Collettivo Delebile e Kiki Smith.
«Fenice Contemporanea» ha così idealmente ripercorso gli ultimi venti anni di arte contemporanea in Valdelsa, teatro di performance che hanno visto protagonisti nomi eccellenti della scena artistica internazionale coinvolti dalla Galleria «Arte Continua» di San Gimignano nel progetto «Arte all’Arte», che ha lasciato traccia in installazioni artistiche tutt’oggi disseminate sul territorio, ma spesso sconosciute ai cittadini e ai visitatori.

Didascalie delle immagini 
[Fig.1 ] Cover della Contemporary art map «Dormiente»; [fig. 2] Mimmo Paladino, «I dormienti», 2000. Poggibonsi (Siena), Fontana delle fate; [fig. 3] Antony Gormley, «Fai spazio, Prendi posto» , 2004. Poggibonsi (Siena), sedi varie 

Informazioni utili 
www.facebook.com/FeniceContemporanea

venerdì 19 settembre 2014

«Little Big Things», la storia del profumo attraverso la collezione Storp

La famiglia Storp, fondatrice nel 1911 a Monaco di Baviera della Drom fragrances, ha raccolto con competenza e passione, nell’arco di più generazioni, una collezione rara e importantissima di flaconi e contenitori per profumi che oggi conta oltre tremila pezzi e sei millenni di storia. Una significativa selezione di queste opere caratterizza ora, grazie a un prestito a lungo termine, l’inedita proposta espositiva del rinnovato Museo di Palazzo Mocenigo a Venezia – Centro studi di storia del tessuto e del costume.
Per approfondire e ampliare questo interessante tema museografico, la città lagunare propone, fino al prossimo 6 gennaio, nell’androne al piano terra del museo di San Stae una mostra di oltre un centinaio di pezzi -unici per rarità e bellezza- provenienti dalla collezione Storp.
L’esposizione, curata da Chiara Squarcina, con la direzione scientifica di Gabriella Belli, si realizza in collaborazione con il team di Drom fragrances e rappresenta un’opportunità inedita attraverso cui dar conto del virtuosismo e della creatività artigianale sviluppatisi nel campo della produzione di manufatti destinati a contenere il profumo, dall’antichità ai giorni nostri.
Opere d’arte vere e proprie questi piccoli ma preziosi contenitori, dalle soluzioni stilistiche originali ed esclusive, celebrano un’arte antichissima diffusasi in Medio Oriente e poi approdata in Grecia e a Roma.
Il termine «profumo», dal latino per fumum (letteralmente «attraverso il fumo») identifica originariamente una duplice funzione, religiosa e profana.
I primi profumi consistevano in aromi bruciati, come l’incenso, in offerta agli dei e agli antenati.
Quest’arte, che conquisterà anche l’Asia grazie alla mediazione dei mercanti arabi, ritornerà nuovamente in Europa al tempo delle Crociate per raggiungere Venezia.
Il ruolo fondamentale della città lagunare -nelle origini di questa tradizione estetica, cosmetica e imprenditoriale- è messo in luce proprio nella nuova sezione del museo dedicata al profumo, di cui questa mostra costituisce un prezioso corredo, valorizzando una produzione manifatturiera cosiddetta «minore» ma dall’alto significato storico.
I flaconi per profumi hanno saputo far evolvere l’arte della profumeria grazie all’ingegno e alla creatività dei loro ideatori. Esposti negli scrigni di luce nella magica cornice di Palazzo Mocenigo, si svelano nella loro più attuale e affascinante modernità.
La collezione spazia da rarissimi pezzi antichi, come un vaso portaolio in terracotta egiziano del III/II sec. a.C., a flaconi e scrigni in vetro, porcellana e biscuits datati tra il XVI e il XIX secolo, fino ad uno straordinario Flacone in vetro satinato realizzato su design di Salvador Dalì e alle più note creazioni delle maggiori case essenziere e di profumo moderne.
Suddivisa in quattro sezioni principali intitolate «Il divino», «L’amore», «La protezione» e «L’identità», rappresentative di tutte le epoche, la mostra evoca emozioni dimenticate, sconosciute o troppo spesso sepolte nella memoria collettiva.
Sarà così possibile vedere pezzi eccezionali dell’antichità e dell’era pre-classica, illustrati utilizzando note figure della mitologia, ma anche alcuni dei migliori esemplari della marca di profumi Worth e una vetrina dedicata a Elsa Schiapparelli. Nelle varie sale si potranno, invece, respirare le Drom fragrances che sette profumieri internazionali hanno realizzato per la mostra veneziana, le cui «testimonianze fragili della storia del costume» sapranno senz’altro affascinare il visitatore grazie alla loro evocativa forza d’ispirazione.

Didascalie delle immagini 
 [Fig. 1] Pomander o pomo d'ambra - argento dorato, riccamente inciso, catena in argento. Pomander costituito da sei segmenti apribili, decorato all'interno con animali e scene di caccia. Firmato sull'elemento centrale dall'alto al basso: zibetto 1 / ambra 2 / muschio su tre dei sei coperchi scorrevoli: «Limone BA 5 / Rosmarino B 3 / Angelica BA 6». Germania Meridionale, fine XVI sec., 6,5 cm. © drom fragances. [Fig. 2] Perfume Egg. Composizione porta profumi - due gusci con due flaconi in cristallo, montatura in ottone su basamento onice. Francia, 1870 ca., 16 cm. © drom fragances; [fig. 3] Vista di insieme di alcuni esemplari della collezione Storp. 

Informazioni utili
«Little Big Things». Palazzo Mocenigo - Centro studi di storia del tessuto e del costume, Santa Croce, 1992 – Venezia. Orari: martedì-domenica, ore 10.00-17.00 (la biglietteria chiude mezz’ora prima); chiuso il lunedì. Ingresso: intero € 8,00, ridotto € 5,50, scuole € 4,00. Informazioni: info@fmcvenezia.it, call center 848082000 (dall’Italia), tel. + 3904142730892 (dall’estero). Sito internet: mocenigo.visitmuve.it.  Fino al 6 gennaio 2015. 


mercoledì 17 settembre 2014

Manzù versus Marino Marini, scultori a confronto nel Parmense

La Villa dei capolavori di Mamiano di Traversetolo apre per la prima volta le porte alla scultura contemporanea. Nella dimora parmense, oggi sede della Fondazione Magnani Rocca, è, infatti, in corso la mostra «Manzù – Marino. Gli ultimi moderni», per la curatela di Laura D’Angelo e Stefano Roffi.
Un’ampia selezione di sculture, dipinti e lavori grafici realizzati dai due artisti negli anni compresi tra il 1950 e il 1970 documenta la loro fiduciosa apertura verso le molteplici lingue della modernità e la capacità dimostrata da entrambi nell’incontrare il gusto di un colto e sofisticato mercato internazionale.
Le opere esposte, visibili fino al prossimo 8 dicembre, provengono dalla Fondazione Marino Marini di Pistoia, dal Museo Marini di Firenze, dalla Fondazione e Museo Giacomo Manzù di Ardea (Roma) e da altre importanti collezioni private e pubbliche. Si tratta di lavori visibili molto di raro al di fuori dei loro consueti contesti museali, dei quali rimarrà documentazione in un ricco catalogo di Silvana editoriale. Grazie a questa mostra è, inoltre, possibile sperimentare un inedito confronto diretto -visivo e critico- tra Giacomo Manzù (Bergamo, 22 dicembre 1908 – Roma, 17 gennaio 1991) e Marino Marini (Pistoia, 27 febbraio 1901 – Viareggio, 6 agosto 1980), artisti che hanno offerto un’interpretazione della scultura figurativa classica in una chiave stilistica del tutto personale, i cui esiti affascinanti e sorprendenti dimostrano come la loro produzione fosse ben lontana dall’obsolescenza e dalla chiusura alla storia, bensì perfettamente in grado di esprimere il dramma e il senso dell’uomo dopo le dissoluzioni del conflitto planetario.
Il percorso espositivo si apre con due opere emblematiche, il «Grande ritratto di signora» di Manzù e il «Cavaliere» di Marino -la prima del 1946, la seconda del 1945- provenienti da prestigiose collezioni private. Si tratta di due sculture in grado di spiegare gli aspetti più importanti delle ricerche figurative compiute dai due artisti, dal riferimento a Medardo Rosso per il bergamasco, alla questione della serialità per il maestro toscano. Seguono grandi bronzi, rilievi, dipinti e lavori grafici, in una successione che tiene conto dei temi maggiormente praticati da entrambi nei decenni presi in esame, a partire dalla danza. Si trovano anche i celeberrimi «Cardinali» di Manzù e i «Giocolieri» di Marini. Una speciale attenzione viene, poi, dedicata ai ritratti; non soltanto per sottolineare l’interesse che entrambi nutrirono nei confronti di questo genere artistico, ma anche per fornire una chiave di lettura della loro personalità attraverso i nomi di artisti, galleristi, collezionisti e che ne sostennero e ne accompagnarono l’attività lungo gli anni Cinquanta e Sessanta, tra i quali si ricordano papa Giovanni XXIII, Igor Stravinskij, Marc Chagall, Jean Arp, Mies van der Rohe, John Huston, Kokoschka, oltre alle mogli, Inge Manzù e Marina Marini.
Differenti i percorsi di studio. Mentre Marino Marini si iscrive nel 1917 all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove frequenta i corsi di pittura e di scultura; Manzù non può vantare un’educazione accademica e, figlio di un calzolaio, si forma all’interno delle botteghe bergamasche specializzate nell’intaglio e nella doratura.
Tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, entrambi si trasferiscono a Milano, dove ha inizio una stagione di riflessione e di ricerca che li condurrà, nel giro di pochi anni, a imporsi nel contesto artistico nazionale, portando i primi prestigiosi riconoscimenti internazionali.
Nel 1935 Marino Marini si aggiudica, per esempio, il premio di scultura alla seconda Quadriennale d’arte nazionale di Roma; mentre all’edizione successiva dell’esposizione, nel 1939, lo stesso premio viene assegnato a Manzù. La carriera dei due artisti prosegue con intensità lungo gli anni Quaranta e alle mostre si succedono nuovi successi. Nel 1948 Manzù allestisce una sala personale alla Biennale di Venezia e si aggiudica il premio per uno scultore italiano assegnato dal Comune di Venezia; nel 1952 il medesimo riconoscimento è assegnato a Marino Marini. È all’indomani di questi premi che per i due scultori si inaugura la fase di maggior impegno sul fronte internazionale: le loro opere figurano nelle più importanti esposizioni allestite in Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti e, mentre, dagli anni Cinquanta, l’attività di Marino Marini si sposta principalmente all’estero, Manzù inizia a lavorare alla realizzazione della Porta della Morte per la Basilica di San Pietro, la cui inaugurazione, nel 1964, segna il punto di massima popolarità raggiunto dall’artista.
L’esposizione parmense permette, dunque, una riflessione ad ampio raggio sull’attività dei due artisti con approfondimenti tematici sul genere del ritratto, sul significato della serialità in scultura, sulle fonti visive delle due produzioni e sul dialogo di entrambi gli artisti con il contesto internazionale.

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Giacomo Manzù, «Bambina sulla sedia», 1955; [fig. 2] Giacomo Manzù, «Cardinale seduto», 1957; [fig. 3] Marino Marini, «Danzatrice», 1952-53; [fig. 4] Marino Marini, «Cavallo e Cavaliere», 1950

Informazioni utili 
«Manzù – Marino. Gli ultimi moderni». Fondazione Magnani Rocca, via Fondazione Magnani Rocca, 4 - Mamiano di Traversetolo (Parma). Orari: martedì-venerdì, ore 10.00-18.00 (la biglietteria chiude alle ore 17.00); sabato, domenica e festivi continuato, ore 10.00-19.00 (la biglietteria chiude alle ore 18.00); lunedì chiuso, ma aperto lunedì 8 dicembre. Ingresso: intero € 9,00; scuole € 5,00. Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo (Milano). Informazioni e prenotazioni gruppi: tel. 0521.848327/848148, fax 0521.848337, info@magnanirocca.it. Sito internet: www.magnanirocca.it. Fino all’8 dicembre 2014.

lunedì 15 settembre 2014

«Aspettando Godot»: «una commedia in cui non accade nulla, per due volte»

«Una commedia in cui non accade nulla, per due volte»: così il critico irlandese Vivian Mercier, in un articolo apparso sull’«Irish Times» nel febbraio 1956, recensiva «Aspettando Godot», dramma in due atti di Samuel Beckett, premio Nobel per la letteratura nel 1969, scritto in francese tra l’ottobre 1948 e il febbraio 1949, la cui prima rappresentazione si tenne il 5 gennaio 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi, per la regia di Roger Blin. È, infatti, la condizione dell’attesa a ordire la trama della piéce, pietra miliare della cultura novecentesca e opera emblematica di quella corrente drammaturgica d’avanguardia che ha raccontato la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo e che il critico inglese Martin Esslin ha definito Teatro dell’assurdo.
Con questa tragicommedia, nella quale l’azione vera e propria è ridotta a pochi atti insignificanti e persino surreali, l’autore irlandese si libera delle condizioni naturalistiche del teatro borghese ottocentesco, ormai trasformatesi in sterile routine, e prende a prestito la formula di quello che Peter Szondi ha definito «dramma di conversazione» per svuotarla di tutte le sue componenti più rilevanti, privando cioè il dialogo tra i personaggi della sua funzione significante e rendendolo così fine a se stesso. Samuel Beckett rivoluziona, in questo modo, il linguaggio scenico e lo mette in burletta -sostiene lo scrittore Federico Platania- «con la sua commistione di registri alti e bassi (citazioni teologiche e turpiloquio), il mix dei generi (tragedia, commedia, teatro comico, gag da cabaret), con il suo disinnescare quelli che fino ad allora erano considerati punti fermi intoccabili (azione, trama, significato), con le sue pause, i suoi silenzi, i suoi ritorni inconcludenti».
Vladimiro (Didi) ed Estragone (Gogo), i protagonisti della tragicommedia beckettiana, sono due mendicanti che vivono in strada e che in una landa desolata, definita unicamente dalla presenza di un albero, attendono un certo signor Godot, del quale non conoscono né le fattezze né il giorno e l’orario dell’arrivo, ma che sono certi li salverà dal misero stato in cui si trovano. Per ingannare l’attesa ed esorcizzare il vuoto e l’insicurezza che patiscono di fronte al ripetersi ciclico e privo di senso delle proprie vite, così tristi e inutili da far nascere in loro continui propositi di suicidio non portati a termine per fiacchezza o impossibilità materiale (l’albero è troppo basso, la cintura si spezza), i due uomini parlano del più e del meno. Scelgono a caso un’idea, un ragionamento, il commento di un fatto e subito lo abbandonano per un nuovo argomento di conversazione. Si ha così l’impressione di assistere a continui «numeri attoriali» messi in scena da due vecchi interpreti del teatro di varietà o delle comiche cinematografiche che ripetono, talora svogliatamente e per abitudine, un repertorio ormai consumato.
In questa situazione stagnante fatta di eventi minimi come togliersi le scarpe, mangiare una carota o scambiarsi i cappelli, Vladimiro ed Estragone incontrano una strana coppia di personaggi: Pozzo, un proprietario terriero che conduce legato a una corda il suo servo, Lucky, disfatto dalla fatica di trascinare valigie piene di sabbia e trattato come un animale a suon di frustate. Il passaggio di queste persone, che si ripresenteranno anche nel secondo atto (uno cieco, l’altro muto), non ha, però, alcun effetto concreto sulla situazione dei due clochard: «Beh, ha fatto passare il tempo» / «Sarebbe passato lo stesso» / «Sì, ma più adagio», dicono i due protagonisti.
Il dramma si chiude con l’immagine di Vladimiro ed Estragone che continuano ad aspettare Godot, incapaci di qualsiasi azione. «Allora, andiamo?» / «Andiamo» è il duetto che chiude l’opera, ma entrambi i personaggi -annota la didascalia scenica- non si muovono, perché non hanno progetti e non sanno dove recarsi; sono come anchilosati, impossibilitati a fuggire dalla monotona ripetitività della propria esistenza.
Ma chi è Godot? Sono stati scritti fiumi di inchiostro per dare una risposta a questa domanda. Si è parlato di destino, morte e fortuna; l’ipotesi critica più diffusa sostiene, però, che l’invisibile protagonista della tragicommedia sia il Dio cristiano, oltre che per l’evidente richiamo fonetico tra i termini Godot e God, anche per la descrizione di un giovane emissario mandato ai due clochard, che parla di un vecchio con la barba bianca. L’autore ha, però, sempre rifiutato questa lettura della sua opera, affermando a più riprese «Se avessi saputo chi è Godot, l’avrei scritto nel copione» o Se Godot fosse Dio, l’avrei chiamato così».
È, però, certo che a fare da filo conduttore al lavoro del drammaturgo irlandese sia l’idea di una condizione umana segnata dalla sofferenza e dall’assenza di senso della vita stessa. In Samuel Beckett –scrive, infatti, Paolo Bertinetti- «si trova esplicitamente l’eco di Leopardi e di Schopenauer.

Da un lato c’è la consapevolezza dell’«infinita vanità di tutto». Dall’altro c’è la persuasione che la vita è una punizione per la colpa originaria di essere nati. Per i personaggi di Beckett, come per la «creatura» di Ungaretti, «la morte si sconta vivendo» […]. Idea di un pessimismo per molti insostenibile». 
Sulla tragicità della situazione si innesta una comicità che assume toni grotteschi. Poco importa se il pubblico ride perché, come scrisse l’autore al regista Roger Blin in vista della prima messinscena, «niente è più grottesco del tragico». O, per usare le parole di un’altra opera beckettiana, «Finale di partita», «niente è più comico dell’infelicità».


Didascalie delle immagini 
[Fig. 1] Samuel Beckett durante le prove della tragicommedia «Aspettando Godot»; [fig. 2] Eros Pagni e Ugo Pagliai in «Aspettando Godot». Foto M. Norberth; [fig. 3] Eros Pagni, Roberto Serpi, Ugo Pagliai, e Gianluca Gobbi in «Aspettando Godot». Foto M. Norberth.