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martedì 5 agosto 2014

«Re Lear»: lotta per il potere e conflitto generazionale in William Shakespeare

La bramosia del potere, il conflitto fra generazioni, l’opportunismo adulatorio celato da amore, i tormenti della gelosia e della lussuria, l’incapacità di leggere l’alfabeto del cuore e di comprendere i silenzi, la precarietà della vita, l’inettitudine dell’uomo a discernere gli inganni del mondo, la discrepanza tra realtà e apparenza: sono molti, e attuali, i temi che tessono la trama di «Re Lear», tragedia in versi e prosa scritta da William Shakespeare intorno al 1605 e rappresentata per la prima volta il 26 dicembre 1606 nel palazzo di Whitehall, alla presenza di re Guglielmo I.
La storia che fornisce l’intreccio principale affonda le radici nell’antica mitologia britannica, in un racconto leggendario risalente all’VIII secolo a.C., ovvero al periodo antecedente alla fondazione di Roma, narrato nel XII secolo da Geoffrey of Monmouth nella sua «Historia anglicana» e, in seguito, trattato da Raphael Holinshed nel libro «The Second Booke of the Historie of England» (1577), da Edmund Spencer nel secondo volume del poema cavalleresco «The Faerie Queene» (1596) e nella raccolta di narrazioni «The Mirror for Magistrates» (1559), una vera e propria miniera di soggetti per i tragediografi elisabettiani.
William Shakespeare attinse a queste fonti e al coevo dramma anonimo «The True Chronicle Historie of King Lear» (1605), che si chiudeva però con il lieto fine, per organizzare la trama della sua tragedia, una vicenda ricca di situazioni e di sentimenti riconducibili alla contemporaneità tanto è vero che, negli anni Sessanta, il polacco Jan Kott ha azzardato un parallelismo con Samuel Beckett e il suo Teatro dell’assurdo.
A scatenare il dramma è la decisione del sovrano britannico di abdicare in favore delle tre figlie sulla base di un love test, ovvero di una gara d’amore verbale. Con calcolo macchiavellico e malcelata ipocrisia, le sorelle Regan e Gonerill ricorrono alla finzione retorica richiesta dal padre per ottenere il potere; Cordelia, personaggio sentimentale più che politico (come ebbe a dire Giorgio Strehler), non si sottomette a questo rito, si sente incapace di esprimere a parole il proprio profondo sentimento filiale e, temendo di immiserire e rendere volgare ciò che prova, si limita a dire: «O mio sfortuna: non riesco a sollevare il peso del mio amore fino alle labbra; amo vostra Maestà secondo il nostro vincolo, né più né meno».
Irritato, il re non riconosce l’affetto senza riserva della giovane figlia, la «migliore» e la «più cara», e la ripudia, revocando la dote già promessa e permettendole di lasciare per sempre l’Inghilterra a fianco del re di Francia, che l’ha chiesta in sposa. È l’inizio di un dramma a tinte fosche, nel quale dominano violenza, tradimento e morte. Re Lear ha, infatti, ben presto modo di scoprire l’ingratitudine e la meschinità di Regan e Gonerill, che lo privano di ogni traccia di antico potere fino a lasciarlo, alla fine del secondo atto, solo, all’addiaccio, senza miglior rifugio di una capanna contadina e in balia della tempesta. Rendendosi conto di essere stato vittima di un errore di valutazione nei confronti di Cordelia, il sovrano impazzisce per il dolore e trova solo nella «pazienza» e nella «pena» della figlia minore, ritornata in Inghilterra con l’esercito francese per riportare l’ordine nel suo Paese natale, il balsamo per curare le ferite del suo cuore e il senso di vuoto che si è impadronito della sua anima. Ma il destino avverso avrà la meglio.
Alla vicenda principale (main plot) si intreccia, come era pratica corrente per molti drammaturghi dell’epoca, una trama secondaria (sub-plot), che incide fortemente sulla prima e che contribuisce a far risaltare i vari momenti della narrazione. La storia di re Lear si riflette, infatti, specularmente in quella del conte di Gloucester e dei suoi due discendenti, il diabolico Edmund e il virtuoso Edgar, che William Shakespeare trasse dal romanzo «Arcadia» di Philip Sidney (1590) e che fece propria raccontando la vicenda di un vecchio cieco tradito dal figlio illegittimo, disposto a tutto pur di impadronirsi del casato, e salvato da quello buono, vittima di una menzogna ed eroe positivo della tragedia, la cui dirittura morale si esplica nella battuta conclusiva, monito alla coscienza dell’uomo di ieri e di oggi: «Noi dobbiamo accettare il peso di questo triste tempo. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire».
Poche sono le rappresentazioni che «Re Lear» può contare nella storia dello spettacolo, tanto è vero che Jan Kott, nel suo illuminante saggio «Shakespeare nostro contemporaneo» (1961), ha scritto che la tragedia del Bardo fa l’effetto di «un’immensa montagna che tutti ammiriamo, ma che nessuno ha voglia di scalare troppo spesso». A ciò ha senz’altro contribuito il giudizio romantico e post-romantico sull’«irrappresentabilità» dell’opera, espresso da Charles Lamb, Henry James e molti altri. In realtà, -stando a quanto afferma Agostino Lombardo nell’introduzione all’edizione Garzanti del 2002- «Re Lear» può dirsi «l’opera più teatrale di William Shakespeare, e ciò nel senso che in essa il linguaggio del drammaturgo raggiunge la sua più alta, e specifica, intensità ed espressività». La parola è, infatti, qui fortemente legata all’azione scenica, come ben comprese Giorgio Strehler nel suo allestimento del 1972, quando definì il testo del Bardo una tragedia che si «inteatra».
Il linguaggio è, dunque, in questo lavoro l’oggetto stesso della rappresentazione. Si pensi alla figura del Fool -personaggio non presente nelle fonti, ma tutt’altro che raro nel teatro del tempo- che è parola personificata, metafora incarnata della follia di re Lear, coscienza del proprio errore di giudizio e addirittura alter ego di un altro personaggio. Non a caso Giorgio Melchiori, nell’introduzione del 1976 all’edizione pubblicata nella collana «I Meridiani» di Mondadori, scrive: «il Fool è la dimostrazione della straordinaria maturità di Shakespeare come uomo di teatro: in una vicenda che comporta necessariamente l’assenza della figura femminile per tutta la parte centrale del dramma […], il Fool compensa e sostituisce l’assenza dell’eroina […]. Sulla scena del Globe Theatre (il teatro di Londra, dove recitò la compagnia del noto drammaturgo elisabettiano, ndr) lo stesso ragazzo poteva assumere i due ruoli […] e l’identificazione fra i due si manifesta nelle parole di Lear stesso quando alla fine rientra in scena portando in braccio il corpo del ragazzo-Cordelia, giovane corpo asessuato dalla morte».
Con questa tragedia il teatro è, dunque, non solo cronaca del tempo o specchio della natura, ma strumento per capire e conoscere l’individuo, microcosmo di inaudita complessità, le cui azioni si intrecciano con le forze del bene e del male presenti nella realtà. Ecco così che in  «Re Lear» trova un senso ancora più intenso e ricco un’espressione nota del Bardo: «Tutto il mondo è un palcoscenico».

Didascalie delle immagini
[Fig. 1] Johann Heinrich Füssli , «Re Lear caccia Cordelia» («Re Lear», Atto I, Scena I), 1784-1790. Toronto, Art Gallery of Ontario; [fig. 2] William Dyce, «Re Lear e il Matto nella tempesta» («Re Lear», III, 2), c. 1851. Edimburgo, National Gallery of Scotland; [fig. 3] James Barry, «Re Lear piange la morte di Cordelia» («Re Lear», V, 3), 1786-88.  Londra, Tate; [fig. 4] James Barry, «Re Lear piange la morte di Cordelia» («Re Lear», V, 3), 1774. Dublino, The John Jefferson Smurfit Foundation. 

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